Biennale Venezia| Lo straordinario Padiglione Australia di Archie Moore dove un albero genealogico tracciato a mano risale fino agli albori della civiltà

Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

Entrando nel Padiglione dell’Australia della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia, dapprima, ci si sente smarriti. E’ questione di qualche secondo, il tempo necessario agli occhi per adattarsi alla penombra dell’ambiente accentuata dal bianco e nero dell’installazione di Archie Moore. Poi si vedono i candidi volumi scultorei al centro della sala e via via l’acqua che li circonda e pian piano anche il groviglio di segni che invade i muri. Solo la fenditura alla base delle pareti del grande ambiente firmato dallo studio di architettura di Melbourne Denton Corker and Marshall, come una luminosa scheggia verde-azzurre, ricorda a chi entra di essere ancora in laguna, per giunta, nel pieno della bella stagione. Con il suo vago odore di lavagna e carta stampata, il silenzio che riempie il vuoto dolente, “Kith and Kin”, l’installazione che si è aggiudicata il Leone d’Oro per le Partecipazioni Nazionali (facendo di Moore il primo artista australiano a portare in patria il prestigioso riconoscimento), non fa sospettare una simile collocazione spazio-temporale. D’altra parte si tratta di un memoriale, opera che per definizione implica la perdita.

Ed è proprio il lutto, sotto forma di pile e pile di documenti dattiloscritti, ad invadere il campo visivo di chi entra nel Padiglione Australia. Si tratta dei rapporti redatti da vari medici legali per documentare la morte di 557 aborigeni in custodia della polizia dal 1991 ad oggi (i nomi sono cancellati). Alcuni di questi documenti fanno riferimento alla storia personale dell’artista (c’è la storia del suo prozio che uccise accidentalmente un uomo durante una lite per il magro salario e dei suoi nonni cui vennero negati dal protettore degli aborigeni i diritti di cui godevano tutti gli altri cittadini). Chili di carta che Moore ha raccolto e disposto gli uni accanto agli altri, posati su una sorta di enorme tavolo, che li innalza appena al di sopra dell’acqua intorno a loro. L’effetto non è molto dissimile (fatte le dovute distinzioni di scala) da quello del Memoriale dell’Olocausto di Berlino, il rettangolo d’acqua poi richiama alla mente pure il World Trade Center Memorial di New York. Ma il lavoro dell’artista nato nel Queensland non si limita ad essere dolente, e riflette tutta l’amarezza che i dati impietosi sulla carcerazione di indigeni australiani possono suscitare: “Siamo il 3,8% della popolazione, ma il 33% della popolazione carceraria- ha detto a The Guardian - E gli aborigeni vanno in prigione più facilmente per reati banali come gettare rifiuti o bere in pubblico”.

Le pareti e il soffitto del padiglione sono state invece interamente ricoperte da un fitto groviglio di nomi legati l’uno all’altro. Si tratta di un albero genealogico speculativo che, secondo Moore dovrebbe risalire addirittura di 65mila anni. Fino a un passato talmente remoto che ci lega gli uni agli altri: "Sto cercando di includere tutti nell'albero- ha detto, sempre nella stessa intervista- perché se torni indietro di 3.000 anni abbiamo tutti un antenato comune”. Mentre la curatrice Ellie Buttrose l’ha paragonato a una “mappa celeste”. Per costruirlo, Moore, ha fatto effettivamente ricerche d’archivio, tra i suoi parenti, all’interno della sua comunità e i gruppi di persone ad essa collegati, ma poi ha lavorato sostanzialmente sulla data in cui si pensa siano esistiti i primi australiani (pare siano uno dei popoli più antichi del mondo) e ha inserito antenati sia reali che ipotetici. “I sistemi di parentela aborigeni- ha spiegato durante la cerimonia di premiazione- includono tutti gli esseri viventi dell’ambiente in una più ampia rete di interrelazione. La terra stessa può essere un mentore, un genitore o un figlio”. Tuttavia nell’albero genealogico ci sono dei buchi che corrispondono ad epidemie, lacune nella conoscenza, massacri e disastri naturali.

Moore ha tracciato a mano con il gesso l’albero genealogico che occupa le pareti (trasformate in lavagne alte 5 metri e lunghe 60) e il soffitto del padiglione. Da solo, in un esercizio d’artigianato monumentale, in bilico tra meditazione e scoperta di se. Gli sono stati necessari mesi di lavoro per terminare.

Siamo tutti uno- ha aggiunto alla cerimonia- e condividiamo la responsabilità di prenderci cura di tutti gli esseri viventi, ora e in futuro”.

Il titolo dell’installazione “Kith and Kin” (“Amici e Parenti”) fa proprio riferimento a questo.

Classe 1970, dal carattere riservato, di madre Kamilaroi /Bigambul e padre britannico (che ha tuttavia perso prestissimo rimanendo all’interno della cerchia famigliare materna durante tutto il periodo della formazione), Archie Moore, è stato il secondo artista aborigeno a rappresentare l’Australia. Lavora spesso con materiali effimeri (come gesso e fogli di carta), rievocando la propria infanzia. Ma afferma di non farlo per nostalgia: “Se la nostalgia- ha detto alla giornalista Paris Lettau lo scorso anno- è il desiderio di tornare a un periodo precedente della vita, non credo di averla a meno che non sia per capire chi sono adesso”. In passato ha ricostruito interamente le stanze della casa di quando era bambino, per “mettere lo spettatore nei miei panni, permettergli di vivere la mia esperienza”. Con tanto di odori come quello di sapone igienizzante (la madre aveva paura che le togliessero i figli perché poco puliti, quindi li lavava continuamente). Ma ha anche lavorato con un maestro profumiere per ricreare una serie di fragranze della sua infanzia, come il profumo di grafite, quello di suo padre e delle sue zie. Rilegge poi simboli come le bandiere. La forza della sua opera, che parla spesso di razzismo ma anche della ricerca di sé stessi, sta nella capacità dell’artista di riuscire a sovrapporre perfettamente le proprie memorie con il passato collettivo ed utilizzarle per influenzare il futuro.

Kith and Kin”, lo straordinario (nonché premiato col Leone d’oro) Padiglione Australia di Archie Moore rimarrà ai Giardini per tutta la durata della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia,Stranieri-Ovunque- Foreigners Everywere” (cioè fino al 24 novembre 2024).

Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

Tutta la bellezza di “Stranieri Ovunque”, la Biennale di Venezia con un prima e un dopo

La facciata del del Padiglione Centrale rallegrata dal murale del collettivo MAHKU 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Il tempo incerto della seconda metà di aprile ha fatto bene alle piante, e gli alberi dei Giardini accolgono con tutte le possibili sfumature di verde riflesse nelle acque argentee della laguna i visitatori della 60esima Esposizione internazionale d’Arte, che durante lo scorso fine settimana (il primo di apertura della Biennale di Venezia 2024) hanno superato tutti i record precedenti. Sono anche delle perfette quinte vegetali per l’elegante facciata del Padiglione Centrale che quest’anno appare completamente ridisegnata, sfolgorante di audaci colori tropicali, da un murale del collettivo MAHKU (il Movimento degli Artisti Huni Kuin, cioè una popolazione amazzonica che abita tra Brasile e Perù, nella regione dell’alto Rio Jordão). Gli autori hanno impiegato 45 giorni per completarlo (niente in confronto ai mesi che sono occorsi ad Archie Moore, meritatissimo Leone d’Oro per le Partecipazioni Nazionali, solo per disegnare col gesso sulle pareti del padiglione Australia un albero genealogico in cui è risalito di 65mila anni!)

Un particolare del monumentale albero genealogico tracciato a mano da Archie Moore Archie Moore / kith and kin 2024 / Australia Pavilion at Venice Biennale 2024 / Photographer: Andrea Rossetti / © the artist / Image courtesy of the artist and The Commercial

E questo è soltanto un piccolo assaggio dell’imponente lavoro che si troverà di fronte il pubblico di “Stranieri Ovunque- Foreigners Everywere” di Adriano Pedrosa, una Biennale che ha riunito le opere di oltre 300 artisti (Pedrosa in un’intervista ha detto: “Volevo dare ad ognuno una possibilità, forse per questo ne ho selezionati così tanti.”) provenienti da ogni dove (ma soprattutto dall’America Latina), spesso indigeni, nella stragrande maggioranza dei casi sconosciuti al grande pubblico.

E non poteva essere altrimenti, visto che Pedrosa, attualmente direttore del Museo d’arte di San Paolo del Brasile, ha bypassato musei e gallerie (abituali fornitori di informazioni in queste circostanze) viaggiando personalmente in Angola, Repubblica Domenicana, Bolivia, Indonesia e Guatemala per trovarli (“Penso di essere stato il primo curatore a farlo” ha detto a Radio 3).

Il tema, che ricalca il titolo, ha tre chiavi di lettura: una politica, una psicologico-poetica e una linguistica. Per questo, in mostra trovano ampio spazio gli artisti indigeni (stranieri nella propria patria), gli artisti queer (stranieri rispetto a un modello sociale binario) e gli outsider (stranieri, tra l’altro, rispetto ai canoni della storia dell’arte). L’aspetto più profondo di questa riflessione è sicuramente il restare estranei a sé stessi, ed è forse il meno immediatamente leggibile, ma la mano misurata e sicura di Pedrosa riesce a dare tridimensionalità anche alla lettura più immediata (quella politica) bilanciando con le tribolazioni dell’essere sradicati dalla propria cultura l’affermazione di uguaglianza globalista. Un’alchimia per niente facile.

Un dipinto di Kay WalkingStick al Padiglione Centrale Photo © artbooms

Ne è uscita una Biennale unica, narrativa, artigianale, fatta di dipinti e di tessuti, luccicante di lustrini, densa di segni, carica di bellezza, a momenti illuminata da brillanti colori pastello o rallegrata da vivaci cromie, altre mimetica, in sintonia coi toni di rocce, terreni argillosi e muschi di foreste o aree desertiche. Ci sono poche sculture e diversi video, (spesso inseriti per fluidificare il percorso, dando il tempo al visitatore di fermarsi a metabolizzare la moltitudine di immagini condensate negli spazi precedenti). Una mostra in un certo senso sospesa tra passato e presente, che ha contagiato con il suo forte tema (quello degli stranieri, delle minoranze, degli svantaggiati) tutte le partecipazioni nazionali, in cui le nuove tecnologie non avrebbero potuto trovare spazio, ma che, forse per questo, spinge la contemporaneità ad emergere prepotente e ad apparire inaspettata: nell’ologramma transgender- canterino della Svizzera, nei cartelloni digitali che stanno fuori a Francia e Gran Bretagna; ma anche nel padiglione Israele tristemente chiuso e presidiato da una coppia di militari (dopo molte polemiche sono stati i curatori a decidere di non aprire anche perché temevano manifestazioni di dissenso filo-palestinese) non lontano dalla Russia che, quest’edizione, ha ceduto il suo edificio alla Bolivia, senza neppure fare un comunicato per spiegare le ragioni di questa scelta. Tensioni geopolitiche che crepitano e si specchiano nella Biennale.

il neon di claire fontaine ai giardini della biennale

Il pubblico sotto il neon del collettivo Claire Fontaine all'esterno del Padiglione Centrale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Lo spirito del tempo, tuttavia, non impedisce al passato di rivendicare la propria importanza nelle vicende del presente. Così i neon del collettivo italo-francese, Claire Fontaine, che hanno ispirato il titolo della manifestazione, incontrano il pubblico all’ingresso dei Giardini per poi tornare a mettersi in vista all’Arsenale, mentre, sospesi sull’acqua, appongono il riflesso della frase “Stranieri Ovunque” (in tutte le lingue e i colori primari) nelle onde dell’antica darsena.

Il passato, d’altra parte, è un elemento importante di questa Biennale che, prima di sondare il presente, si propone di restituire alla storia dell’arte pagine perdute. Di regalare uno sguardo critico diverso agli osservatori di oggi, sulla base di una rivalutazione di tecniche, stili, concetti e tradizioni artistiche a cui nessuno fino ad ora aveva mai prestato attenzione (semplicemente perché succedevano al di fuori dell’Occidente). Un lavoro che continua e completa quello cominciato da Cecilia Alemani ne “Il Latte dei Sogni (lei si era occupata delle opere perdute o sottovalutate perché firmate da donne, Pedrosa di quelle di creativi che hanno operato nel sud del mondo).

Forse proprio per questo gli artisti scomparsi sono oltre la metà di quelli chiamati a partecipare. C’è il nucleo storico che si sviluppa in quattro sale ma anche all’interno di quello contemporaneo i morti sono tanti.

Crucifixion of the Soul” di Madge Gill Photo © artbooms

Tre gruppi di opere del nucleo storico sono ai Giardini, dove per tradizione viene esposto il materiale più datato (una sala dedicata all’astrazione queer, una al ritratto e una agli artisti italiani del XX secolo che si sono avventurati in Paesi allora considerati remoti e minacciosi). Ma, come già detto, anche quelli del nucleo contemporaneo a volte non ci sono più. E’ il caso dell’inglese Madge Gill, per la prima volta esposta alla Biennale, con lo splendido “Crucifixion of the Soul” (1936). Artista outsider, Gill, ben rappresenta la chiave di lettura psicologico-poetica del tema “Stranieri Ovunque” (essere estranei a se stessi), era infatti convinta che la sua mano fosse pilotata da uno spirito guida. “Crucifixion of the Soul” è un monumentale esempio del suo stile: fittissimo disegno veloce ed energico ad inchiostro da cui emergono figure femminili, scale e motivi a scacchiera.

Uno dei Bamboos di Ione Saldanha Photo © artbooms

Non è più tra noi (dal 2001) anche la brasiliana Ione Saldanha che ha esplorato nuovi supporti pittorici per il suo lavoro. Uno di questi è stato il bamboo, che l’artista raccoglieva e seccava per più di un anno per poi sabbiarlo e ricoprirlo con cinque rivestimenti preparatori di pittura bianca. Alla fine lo dipingeva con motivi astratti e colori vivaci. Queste opere che sono una via di mezzo tra pittura e scultura si chiamano “Bambus” e sono pensate per essere appese al soffitto e fluttuare al passaggio dei visitatori.

Sempre al Padiglione Centrale i dipinti di paesaggi naturali americani, ad un tempo meta turistica e patria ancestrale degli indiani-americani, della statunitense Kay WalkingStick (di padre cherokee), oltre alle rappresentazioni dell’infinita varietà di alberi della foresta amazzonica di Abel Rodríguez (formatosi come botanico presso gli indigeni colombiani Nonuya). Ma anche gli assemblaggi scultorei tagliati con la motosega dal coreano-argentino Kim Yun Shin che, a 88 anni, ha trovato una galleria di riferimento per il suo lavoro solo quest’anno.

Delle sculture di Kim Yun Shin esposte nel Padiglione Centrale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Se i Giardini si possono definire un tiepido inizio è all’Arsenale che Pedrosa dimostra tutto il suo talento di regista. Non una nota stonata, non un cedimento, ogni scelta stilistica (se così si può dire) è perfetta: l’equilibrio tra spazi pieni e vuoti nell’installazione, tra stanze colme di oggetti ed altre concepite per fermare il visitatore, dargli il tempo di prendere fiato e ripartire di nuovo ricettivo. Persino i colori dei gruppi di quadri alle pareti non sembrano lasciati al caso e si abbinano bene a vicenda.

Qui si parte con un’installazione del collettivo di donne māori della Nuova Zelanda, Mataaho, fatta di fasce in poliestere e fibbie in acciaio, tese a proiettare una successione di righe d’ombra e luce senza soluzione continuità sulle pareti dell’antico ex-edificio industriale veneziano. L’opera, che si è aggiudicata il Leone d’Oro al miglior partecipante, si intitola “Takapau”, come una stuoia tradizionalmente usata dagli indigeni durante il parto e che segna perciò un momento di transizione fra luce e buio.

Ma i lavori da segnalare sarebbero davvero troppi, dai “trapuntos” della filippino-statunitense Pacita Abad, ai dipinti carichi di sfumature fantascientifiche di verde che sottraggono all’oscurità i personaggi queer della stella emergente pakistano-americana, Salman Toor. E poi dipinti e sculture della poetessa visiva austriaco-italiana (vive a Bologna) Greta Schödl che ricopre interamente gli oggetti con una singola parola ripetuta più e più volte (ad esempio su un pezzo di granito incide reiteratamente la parola “granito”) da cui isola una lettera su cui applica della foglia d’oro. Senza dimenticare le splendide fotografie del boliviano, River Claure, che nella sua serie più conosciuta “Warawar Wawa” (2019-2020) ambientava il “Piccolo Principe” nella Bolivia contemporanea.

Un particolare dell’installazione premiata “Takapau” del collettivo Mataaho Photo © artbooms

Poi i tessuti ariosi, dai colori tenui e sorprendenti, ottenuti anche con pigmenti naturali, della keniota Agnès Waruguru; l’enorme installazione idraulica effimera del colombiano-francese, Daniel Otero Torres, fatta di oggetti recuperati qua e là, messi insieme per evocare il sistema di architettura a palafitte degli Emberà (stanziati lungo le rive del fiume Atrato, in Colombia), e progettata per raccogliere l’acqua piovana e fornire agli abitanti acqua non inquinata. E ancora, l’artista autodidatta peruviano, Santiago Yahuarcani, che dipinge con pigmenti naturali complesse scene che non fanno riferimento alla storia dell’arte occidentale ma a quanto narrato dai suoi antenati, alla conoscenza sacra delle piante medicinali, ai suoni della giungla e ai miti del suo popolo. Yahuarcani, che appartiene al clan dell’Airone Bianco della Nazione Uitoto (indigeni dell’Amazzonia settentrionale), era presente all’inaugurazione della Biennale e si è messo davanti ai suoi quadri a spiegare pazientemente alle persone di passaggio il perché di ogni singola immagine nelle complesse composizioni. In mostra c’è anche suo figlio, Rember Yahuarcani (e non sono gli unici due partecipanti legati da vincoli di sangue), che crea paesaggi onirici dai colori vivaci che tendono all’astrattismo e sono stati invece influenzati dall’arte dell’occidente.

Santiago Yahuarcani spiega al pubblico incontrato in Biennale il perchè delle rappresentazioni che animano le sue grandi opere Photo © artbooms

La parte dell’esposizione sviluppata all’Arsenale si conclude con una stanza dedicata interamente all’opera di un’altra stella nascente, il giovane artista statunitense di origini orientali, WangShui, che qui presenta dai grandi pannelli ossidati manualmente con la cocciniglia posti a schermare le finestre (solo una lama di luce filtra da ogni lato), insieme ad una grande scultura di led che pulsa ed emette suoni e rumori. L’effetto è straniante e drammatico.

Usciti di lì i visitatori troveranno non molto lontano il Padiglione Italiano (di cui Artbooms parlerà diffusamente più avanti), intitolato “Due qui / To Hear”, una installazione scultoreo-sonora, risolta con uno stile pulito dall’artista Massimo Bartolini, e davvero ben riuscita. Il curatore è Luca Cerizza. Bravi entrambi!

Al margine del giardino che completa il padiglione Italiano (che è stato pensato come una terza stanza e contiene un’ultima, impalpabile, opera di Bartolini) non va dimenticato di entrare nel piccolo edificio che ospita l’installazione site-specific, “Indo e Vindo”, dell’italiana di nascita ma brasiliana d’adozione, Anna Maria Maiolino, Leone d’oro alla carriera di quest’anno. Una quantità impressionante d’argilla modellata a mano ma anche suoni e odori che evocano l’inesauribile vitalità della natura e il ciclo della vita.

Stranieri Ovunque- Foreigners Everywere” di Adriano Pedrosa resterà a Venezia fino al 24 novembre e va assolutamente visitata. Sia perché si tratta di una splendida mostra che ha comportato un lavoro colossale, ma anche e soprattutto perché dopo questa Biennale (così come dopo quella che l’ha preceduta) la critica e la storia dell’arte non saranno più le stesse. Non potranno esserlo. Anche se nella prossima edizione dovesse essere nominato un curatore dall’approccio più convenzionale semplicemente non gli sarà possibile fare come se niente fosse. La 60esima Esposizione internazionale d’Arte è destinata ad avere un prima e un dopo.

Una ragazza osserva le opere di Abel Rodríguez al padiglione Centrale Photo © artbooms

Salman Toor, Night Grove, 2024  Oil on panel 195.6 × 267 cm 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Particolare di un'opera di Greta Schödl 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Marco Zorzanello Courtesy: La Biennale di Venezia

Un particolare della stanza dedicata a WangShui che completa il percoso all'Arsenale 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia

Un'opera di River Claure Photo © artbooms

Daniel Otero Torres Aguacero , 2024 Mixed media 655 × 1100 × 1100 cm  60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere Photo by: Marco Zorzanello Courtesy: La Biennale di Venezia

Un particolare dell'installazione “Indo e Vindo”, del Leone d'oro  alla carriera Anna Maria Maiolino Photo © artbooms

La meditazione, il pesiero, le rocce e il '68 di Lee Ufan all' Hamburger Bahnhof di Berlino

Lee Ufan, Portrait © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / Jacopo La Forgia

A volte, Lee Ufan, espone semplici rocce, magari accoppiate con lastre di metallo, altre crea dei dipinti astratti composti da quelle che sembrano poche pennellate ma che sono in reltà il risultato di settimane di lavoro. La sua arte è un mix di meditazione e pensiero, semplicità e complessità, Oriente e Occidente, che ha fatto la storia dell’arte. Fino a fine mese, sessant’anni di carriera di questo grande maestro della contemporaneità, saranno all’ Hamburger Bahnhof di Berlino.

Nato in Corea, vissuto in Giappone e in Francia, con una mente forgiata dalla filosofia, dalla letteratura e dall’arte, a 88 anni Lee Ufan, è un testimone prezioso dell’evoluzione del pensiero degli ultimi sessant’anni, ma soprattutto un artista acuto che con il suo lavoro ha contribuito a trovare una sintesi tra Oriente, Occidente e contemporaneità. E’ considerato talmente importante che la sua opera è celebrata in ben tre musei dedicati solo a lui, disposti in ognuno dei Paesi in cui si svolge la sua biografia, pensati come un lascito per i posteri (la Fondazione Lee Ufan di Arles che ha sede in un palazzo seicentesco su cui è intervenuto il famoso architetto Tadao Ando; il Lee Ufan Museum di Naoshima un’isola e una città del Giappone note per i musei e le installazioni d’arte contemporanea; lo Space Lee Ufan a Busan una metropoli sud coreana).

D’altra parte Lee Ufan è stato tra i teorizzatori e gli artisti più rappresentativi del Mono-Ha in Giappone (letteralmente "La scuola delle cose"), un movimento simile al Minimalismo americano e forse ancora di più all’Arte Povera italiana (concentrato però particolarmente sul rapporto che intercorre tra oggetto, spazio e spettatore nel lasso di tempo in cui vengono in contatto) e Mono-ha è considerata la corrente più importante nella storia dell’arte giapponese recente (siamo tra gli anni ’60 e i ’70). Viene da sé quindi che già per questo Ufan abbia un posto nei libri di Storia ma lui è stato anche membro del Dansaekhwa in Corea (generalmente tradotto come “Pittura monocromatica coreana”, stesso periodo) altro movimento-colonna dell’arte asiatica del dopo-guerra.

In questi mesi il museo d’arte contemporanea Hamburger Bahnhof di Berlino gli rende omaggio con una grande retrospettiva. La prima in Germania a lui dedicata. Si chiama semplicemente “Lee Ufan” e, oltre a ripercorrere la lunga carriera dell’artista asiatico attraverso sessanta opere tra sculture, dipinti e installazioni, lo pone in dialogo con Rembrandt.

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Soprattutto durante il periodo Mono-ha, Ufan, espone rocce, cotone, lastre di metallo, specchi. In alcuni casi fa di più: ad esempio, lasciando cadere una roccia su uno specchio che si frantuma di fronte al pubblico (come una forma di disegno automatico) inserendo la forza di gravità nell’opera, oppure abbandonando tre grandi fogli di carta su una piazza in balia del vento (qui la natura diventa co-autrice del lavoro). L’idea era quella di svuotare le opere dalla presenza dell’artista e far si che l’incontro tra l’oggetto, lo spettatore e il luogo in cui era posizionata l’opera, facessero la magia. In un’intervista ha spiegato: “Come in Francia, dove nel maggio 1968 si verificò una rivoluzione sociale, il Giappone all’epoca stava attraversando una trasformazione sociale. Il modernismo basato sull’idea dell’ego è andato in frantumi. Era ora di cercare una conversazione con l'esterno o con l’altro (…)”. Insomma, parola d’ordine: l’artista e i suoi sentimenti devono sparire. Sempre per questo, Ufan e gli altri del movimento Mono-ha, prediligevano sculture “non fatte”, oggetti prelevati tali e quali dal mondo intorno a loro. Un po’ come Michelangelo Pistoletto, quando cercava di fare entrare il mondo nei suoi “Quadri Specchianti, o comunque altri esponenti dell’Arte Povera da noi. C’è da dire, che, al di là del clima sessantottino, il fatto che il concetto di umiltà sia parte integrante della cultura giapponese, deve aver contribuito non poco allo svilupparsi di questa corrente di pensiero.

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgi 

Anni dopo, Ufan le sue rocce, accostante a semplici forme di metallo (come un arco) messe lì più che altro per enfatizzare le prime (affermando così il prevalere dell’opera della natura su quella dell’uomo), le avrebbe esposte alla Reggia di Versailles.

Lo scorso anno durante la presentazione delle tazzine Illy da lui disegnate, ha detto: “Sono nato in campagna, circondato da una natura selvaggia che mi ha insegnato molto. Ma sono anche figlio della grande città, una lavagna su cui apprendere infinite lezioni. Più ci pensavo, più prendevo coscienza di una verità che non mi ha mai lasciato: non si può prescindere dalla natura e l’universo”.

Lee Ufan, „From Line“, 1977, Kleber und Mineralpigment auf Leinwand, The National Museum of Modern Art, Tokyo © Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023. Foto: Shu Nakagawa

Se le sue rocce sono molto conosciute, forse i dipinti lo sono ancora di più. Per farli concentra tutta sua la sua energia sul pennello che poi applica sulla tela per alcuni minuti, ripete il gesto più volte, sospende per qualche giorno e infine ricomincia. Alla fine quelle che sembrano semplici pennellate sono il risultato perfetto di un lungo processo e della sovrapposizione di più strati di vernice. In passato, con un metodo simile tracciava delle linee parallele che via via che il colore si esauriva, evaporavano nel fondo crema della tela. Usa grandi pennelli quadrati e a volte mischia polvere minerale al colore. Ci mette molto tempo a completare un lavoro, così ogni anno sono pochi i dipinti che escono dal suo studio.

Oltre che un’artista, Ufan durante la sua carriera, è stato un filosofo, un saggista, un critico e un insegnante. Ai suoi studenti diceva sempre di guardare le mani mentre modellavano l’argilla o stringevano la matita. Come fossero altro da loro. Ma anche di controllare le loro reazioni all’ambiente in cui si trovavano.

La mostra di Lee Ufan all’ Hamburger Bahnhof si concluderà il 28 aprile 2014. Per l’occasione "Autoritratto con berretto di velluto" del pittore olandese è stato esposto in una sala del museo d’arte contemporanea (insieme alla scultura dell’artista orientale: "Relatum – La stretta strada del cielo"), mentre al centro della sala Rembrandt della Gemäldegalerie della capitale tedesca c’è un intervento di Ufan.

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart,27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Gemäldegalerie, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia