A volte, Lee Ufan, espone semplici rocce, magari accoppiate con lastre di metallo, altre crea dei dipinti astratti composti da quelle che sembrano poche pennellate ma che sono in reltà il risultato di settimane di lavoro. La sua arte è un mix di meditazione e pensiero, semplicità e complessità, Oriente e Occidente, che ha fatto la storia dell’arte. Fino a fine mese, sessant’anni di carriera di questo grande maestro della contemporaneità, saranno all’ Hamburger Bahnhof di Berlino.
Nato in Corea, vissuto in Giappone e in Francia, con una mente forgiata dalla filosofia, dalla letteratura e dall’arte, a 88 anni Lee Ufan, è un testimone prezioso dell’evoluzione del pensiero degli ultimi sessant’anni, ma soprattutto un artista acuto che con il suo lavoro ha contribuito a trovare una sintesi tra Oriente, Occidente e contemporaneità. E’ considerato talmente importante che la sua opera è celebrata in ben tre musei dedicati solo a lui, disposti in ognuno dei Paesi in cui si svolge la sua biografia, pensati come un lascito per i posteri (la Fondazione Lee Ufan di Arles che ha sede in un palazzo seicentesco su cui è intervenuto il famoso architetto Tadao Ando; il Lee Ufan Museum di Naoshima un’isola e una città del Giappone note per i musei e le installazioni d’arte contemporanea; lo Space Lee Ufan a Busan una metropoli sud coreana).
D’altra parte Lee Ufan è stato tra i teorizzatori e gli artisti più rappresentativi del Mono-Ha in Giappone (letteralmente "La scuola delle cose"), un movimento simile al Minimalismo americano e forse ancora di più all’Arte Povera italiana (concentrato però particolarmente sul rapporto che intercorre tra oggetto, spazio e spettatore nel lasso di tempo in cui vengono in contatto) e Mono-ha è considerata la corrente più importante nella storia dell’arte giapponese recente (siamo tra gli anni ’60 e i ’70). Viene da sé quindi che già per questo Ufan abbia un posto nei libri di Storia ma lui è stato anche membro del Dansaekhwa in Corea (generalmente tradotto come “Pittura monocromatica coreana”, stesso periodo) altro movimento-colonna dell’arte asiatica del dopo-guerra.
In questi mesi il museo d’arte contemporanea Hamburger Bahnhof di Berlino gli rende omaggio con una grande retrospettiva. La prima in Germania a lui dedicata. Si chiama semplicemente “Lee Ufan” e, oltre a ripercorrere la lunga carriera dell’artista asiatico attraverso sessanta opere tra sculture, dipinti e installazioni, lo pone in dialogo con Rembrandt.
Soprattutto durante il periodo Mono-ha, Ufan, espone rocce, cotone, lastre di metallo, specchi. In alcuni casi fa di più: ad esempio, lasciando cadere una roccia su uno specchio che si frantuma di fronte al pubblico (come una forma di disegno automatico) inserendo la forza di gravità nell’opera, oppure abbandonando tre grandi fogli di carta su una piazza in balia del vento (qui la natura diventa co-autrice del lavoro). L’idea era quella di svuotare le opere dalla presenza dell’artista e far si che l’incontro tra l’oggetto, lo spettatore e il luogo in cui era posizionata l’opera, facessero la magia. In un’intervista ha spiegato: “Come in Francia, dove nel maggio 1968 si verificò una rivoluzione sociale, il Giappone all’epoca stava attraversando una trasformazione sociale. Il modernismo basato sull’idea dell’ego è andato in frantumi. Era ora di cercare una conversazione con l'esterno o con l’altro (…)”. Insomma, parola d’ordine: l’artista e i suoi sentimenti devono sparire. Sempre per questo, Ufan e gli altri del movimento Mono-ha, prediligevano sculture “non fatte”, oggetti prelevati tali e quali dal mondo intorno a loro. Un po’ come Michelangelo Pistoletto, quando cercava di fare entrare il mondo nei suoi “Quadri Specchianti”, o comunque altri esponenti dell’Arte Povera da noi. C’è da dire, che, al di là del clima sessantottino, il fatto che il concetto di umiltà sia parte integrante della cultura giapponese, deve aver contribuito non poco allo svilupparsi di questa corrente di pensiero.
Anni dopo, Ufan le sue rocce, accostante a semplici forme di metallo (come un arco) messe lì più che altro per enfatizzare le prime (affermando così il prevalere dell’opera della natura su quella dell’uomo), le avrebbe esposte alla Reggia di Versailles.
Lo scorso anno durante la presentazione delle tazzine Illy da lui disegnate, ha detto: “Sono nato in campagna, circondato da una natura selvaggia che mi ha insegnato molto. Ma sono anche figlio della grande città, una lavagna su cui apprendere infinite lezioni. Più ci pensavo, più prendevo coscienza di una verità che non mi ha mai lasciato: non si può prescindere dalla natura e l’universo”.
Se le sue rocce sono molto conosciute, forse i dipinti lo sono ancora di più. Per farli concentra tutta sua la sua energia sul pennello che poi applica sulla tela per alcuni minuti, ripete il gesto più volte, sospende per qualche giorno e infine ricomincia. Alla fine quelle che sembrano semplici pennellate sono il risultato perfetto di un lungo processo e della sovrapposizione di più strati di vernice. In passato, con un metodo simile tracciava delle linee parallele che via via che il colore si esauriva, evaporavano nel fondo crema della tela. Usa grandi pennelli quadrati e a volte mischia polvere minerale al colore. Ci mette molto tempo a completare un lavoro, così ogni anno sono pochi i dipinti che escono dal suo studio.
Oltre che un’artista, Ufan durante la sua carriera, è stato un filosofo, un saggista, un critico e un insegnante. Ai suoi studenti diceva sempre di guardare le mani mentre modellavano l’argilla o stringevano la matita. Come fossero altro da loro. Ma anche di controllare le loro reazioni all’ambiente in cui si trovavano.