L’artista indiano Subodh Gupta, ha costruito una gaziosa casetta con centinaia di vecchi utensili da cucina metallici. L’opera si intitola “Cooking the world” ed è la nuova versione di un lavoro del 2017. Composta di pentole, padelle, piatti, secchi e quant’altro, fissati tra loro, l’installazione è stata un ristorante aperto al pubblico, durante la settimana in cui ha inaugurato la Biennale di Venezia. Il cuoco era l’artista.
La settimana scorsa si è conclusa l’esposizione di Cooking the World di Subodh Gupta all’interno dei giardini Casanova del Cipriani Belmond Hotel di Venezia. La mostra, faceva parte della serie di eventi Mitico, organizzata da Galleria Continua in collaborazione con il gruppo Belmond. E si è tenuta durante i mesi di apertura della 59esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia, Il Latte dei sogni (dal 23 Aprile al 19 Novembre 2022). Durante la prima settimana, Gupta, ogni sera ha cucinato all’interno della scultura per un gruppo di persone.
Nato povero nell’India rurale degli anni ‘60, Subodh Gupta, ha avuto una carriera che si potrebbe definire motivante. Dopo gli studi e un periodo di relativa incertezza, ha raggiunto il successo internazionale all’inizio dei primi anni 2000. Adesso vive nei pressi di Delhi ed è un artista famoso e influente.
L’aspetto più noto della sua opera è il frequente uso massivo di oggetti della quotidianità indiana, come: le scatole tiffin in acciaio (usate per portare il pranzo), i piatti thali, le biciclette e i secchi per il latte. Gupta li considera simboli della trasformanzione economica del suo Paese ed allo stesso tempo della sua intima immutabilità. Ma anche oggetti rituali e custodi di memoria.
"Sono un ladro di idoli- ha detto tempo fa- Rubo dal dramma della vita indù. E dalla cucina, queste pentole, sono come dei rubati, contrabbandati fuori dal paese. Le cucine indù sono importanti quanto le sale di preghiera".
“Cooking the world” è un opera composta da una performance e da un’installazione, presentata nel 2017. Nella parte scultorea c’erano utensili da cucina appesi al soffitto attraverso fili sottili. Ma il cuore del lavoro era performativo: l’artista che cucinava per gli spettatori diventati ospiti e faceva conversazione con loro. Alla base dell’opera, l’idea che preparare e condividere cibo sia un simbolo transculturale di intimità, amicizia, vicinanza.
Nella nuova versione, l’installazione abbandona la libertà di quella
precendete e diventa emblema a sua volta. Ha la forma di una casa, che già di per se evoca: sicurezza, riparo, famiglia. Mentre gli utensili di cui è composta, pur ammassati l’uno all’altro, somigliano ad una volta celeste. Ed evocano lo scorrere del tempo, il caso e le esperienze passate.