L’equilibrio instabile dell’opera di Bharti Kher (in mostra allo Yorkshire Sculpture Park)

Bharti Kher, Ancestor, 2022 (detail). Collection of the Kiran Nadar Museum of Art, Delhi. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Quando Bharti Kher teminò gli studi era indecisa se trasferirsi negli Stati Uniti o in India: lanciò una moneta e uscì l’india; lì tre mesi dopo avrebbe incontrato il suo futuro marito (l’artista indiano Subodh Gupta, da cui ha poi avuto due figli). Nata e cresciuta a Londra da una coppia di immigrati del Punjab, Kher allora (era l’inizio degli anni ’90), la patria dei suoi antenati l’aveva visitata una sola volta da bambina e in giro per le strade si faceva capire a fatica, ma andò tutto nel migliore dei modi. In quest’episodio, si può scorgere anche il segno della dualità che da sempre modella il suo lavoro. Poeticamente sospeso nell’equilibrio instabile tra fissa determinazione del pensiero e apparente imprevedibilità del fato.

Un bilanciamento che a volte richiede pronta flessibilità intellettuale. Così quando nel 2008, alla vigilia dell’inaugurazione di una mostra in un museo inglese (il Baltic Centre for Contemporary Art di Gateshead) il pezzo forte dell’esposizione, una scultura in fibra di vetro simile a un albero ("The Waq Tree") alta 5 metri è crollata, Kher l’ha lasciata a terra, senza farne parola con nessuno (qualche anno dopo raccontò che sul momento si era messa a piangere ma poi il marito l’aveva esortata a non scoraggiarsi e, di fronte all’opera ferita, si era resa conto che, in fondo, in quella nuova posizione stava anche meglio di prima).

Dalla fine di giugno l’artista anglo-indiana è protagonista di una vasta retrospettiva allo Yorkshire Sculpture Park di West Bretton in Inghilterra. Intitolata “Bharti Kher: Alchemies”, la mostra, si estende tra gli spazi espositivi interni e gli splendidi giardini del museo che celebrano la bellezza della campagna inglese in ogni stagione. Lì, tra le altre grandi opere tridimensionali, c’è anche “Ancestor” (lo scorso anno posizionata nel Central Park di New York), una donna simile a una divinità indiana, accanto alla cui testa escono quelle di 23 bambini. Descritta da Kher come "una forza femminile mitica e potente che rende omaggio alle generazioni precedenti e successive". Anche lei, però, frutto di una mediazione tra la volontà dell’artista e i capricci del destino.

L’idea della serie “Intermediaries” (di cui “Ancestor” fa parte), infatti, le venne alcuni anni fa durante una visita alla cittadina portuale di Kochi nell’India meridionale: "Ho visto tutte queste meravigliose bambole golu (statuette tradizionali della zona, spesso esposte durante le feste religiose n.d.r.)- ha detto a Vogue India- Ho chiesto a un artigiano locale di raccoglierne alcune per me, ma quando sono arrivate nel mio studio, molte erano rotte".

Bharti Kher, Virus XV, 2024. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

D’altra parte l’opera di Kher fa continuamente riferimento a trasformazione e metamorfosi (di concetti, di natura e di materiali). Cui allude anche il titolo della mostra (“Alchemies”), in cui sono esposte molte opere, realizzate appunto, in maniera ingannevole (le imponenti “Intermediaries”, per esempio, imitano delle fragili statue di terracotta ma sono in metallo, sembrano antiche ma non lo sono affatto). Mentre l’artista affronta il tema dell’identità e quello della spiritualità. Ma anche cose meno universali: “Sono una persona politica- ha spiegato in un’altra intervista- ma non reagisco alle situazioni man mano che accadono. L'arte non è un'azione impulsiva. È più simile a una combustione lenta. Ciò che facciamo quando creiamo arte è distillare e condensare. Condenso molto rumore e ricerca in un singolo momento".

L’elemento più conosciuto della sua pratica è il bindi (dal sanscrito bindu, che significa goccia, particella, punto, cioè il principio di tutto e non per niente queste decorazioni sono dette anche terzo occhio) con cui ha ricoperto l’immagine di un elefante morente a grandezza naturale (l’opera è poi diventata un record d’asta), ma anche dipinti astratti, specchi frantumati e quant’altro.

Tradizionalmente usato dalle donne indiane, il bindi un tempo ne indicava lo stato civile ma anche quello religioso ed etnico, mentre oggi viene principalmente usato come decorazione. Nell’opera di Kher è un simbolo complesso: fa riferimento all’identità privata (le donne alla sera lo tolgono) e a quella pubblica; al femminile e al maschile (spesso i suoi bindi sono a forma di serpente o spermatozoo); oltre che alla resilienza imperfetta delle tradizioni di fronte all’erosione di significato della globalizzazione (i bindi del presente sono spesso ninnoli a basso costo prodotti in ogni dove).

Ma Kher ha lavorato anche con altri oggetti-simbolo della femminilità nel subcontinente, come i bracciali di vetro e i sari. Riguardo a questi ultimi ha detto: "I sari custodiscono le storie delle nostre vite; il singolo pezzo di tessuto che indossi per tutta la vita, alla fine diventa il tuo sudario".

La serie di opere dedicate a quest’indumento si intitola “Sari Women” e, quasi sempre, rappresenta una figura femminile in scala uno a uno, di cui solo i piedi o le gambe sono visibili, mentre il resto del corpo (volto compreso) è nascosto da pile di tessuti drappeggiati (la bellezza e la violenza della negazione; l’assenza).

Allo Yorkshire Sculpture Park c’è più di una scultura di questa serie e, nonostante si tratti di lavori emotivamente disturbanti, non riescono a raggiungere il livello di vibrazione suscitata dalla semplicità funeraria di “The Deaf Room” (2001-2012) in cui l’artista ha costruito una stanza con mattoni scuri, ottenuti dalla fusione di 10 tonnellate di braccialetti di fibra di vetro usati. L’opera fa riferimento alle rivolte religiose nel Gujarat del 2002 in cui la violenza contro le donne era pratica diffusa.

In mostra pure il toccante calco in gesso di sei prostitute di New Delhi (“Six Women”, 2012-2014), restituite agli occhi del pubblico, nude, in una posa raccolta.

Del resto il genere femminile è protagonista dell’esposizione inglese di Kher che raffigura le signore in maniera molteplice e ambivalente. Il museo spiega l’argomento così: “Presenta la donna come madre, prostituta, mostro, guerriera e divinità, spesso ibridata con animali o come avatar della dea. I suoi personaggi mitologici confondono i confini tra genere umano, natura e narrazione, rivelando un potenziale espansivo e un nuovo significato”.

Bharti Kher: Alchemies” resterà allo Yorkshire Sculpture Park fino al 27 aprile 2025.

Bharti Kher, The Intermediary Family, 2018. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, Alchemies, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.

Bharti Kher, Djinn, 2024. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, Alchemies, installation view at Yorkshire Sculpture Park, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.

Bharti Kher, Six Women, 2012– 2014. Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher, The deaf room, 2001–2012 (detail). Courtesy the artist, Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park

Bharti Kher with Djinn, 2024. Courtesy the artist Hauser & Wirth, Nature Morte and Perrotin. Photo © Jonty Wilde, courtesy Yorkshire Sculpture Park.

A Palazzo Strozzi una mostra imperdibile racconta Helen Frankenthaler che amava dipingere l’oceano e non si piegava ai capricci della politica

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

La grande Helen Frankenthaler a Palazzo Strozzi

Nata a New York nel 1928, Helen Frankenthaler, è stata una delle artiste più ammirate della sua generazione. Il lirismo che si insinua nelle grandi tele astratte in cui dinamismo e staticità si fondono nei colori ricercati e briosi ha segnato un’epoca, e, da qualche anno ad oggi, a Frankenthaler, è riconosciuto anche un posto di rilievo nella Storia dell’Arte. Nella Storia, lei, che ballò con John Travolta alla Casa Bianca durante un ricevimento in onore dell’allora Principe Carlo e di lady D, un posticino ce l’aveva già.

D’altra parte Frankenthaler, si è inventata una tecnica pittorica tutta sua (‘soak-stain’ letteralmente imbibizione a macchia, in seguito usata anche dai colleghi maschi) e dalla seconda generazione dell’Espressionismo Astratto (la prima tendenza autenticamente americana) ha gettato le basi per movimenti artistici successivi oltre a liberarsi dalla retorica romantica dei suoi predecessori. Da sabato scorso la Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze le dedica un’importante mostra nell’edificio rinascimentale che prima di lei ha ospitato grandi nomi del contemporaneo (come Anselm Kiefer o Olafur Eliasson) ma anche antichi maestri (come Donatello).

Curata da Douglas Dreishpoon (direttore dell’Helen Frankenthaler Catalogue Raisonné) e organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi insieme alla Helen Frankenthaler Foundation di New York, la retrospettiva “Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole” ripercorre la lunga carriera della pittrice mancata nel 2011 (a 83 anni). E lo fa attraverso una selezione di opere molto rilevanti di Frankenthaler (alcune sono veri e propri capolavori) ma anche di artisti, a lei contemporanei che l’hanno influenzata o sono stati condizionati da lei.

Ci sono il Jackson Pollock del “nr 14” (1951) che per l’allora giovane pittrice fu un’epifania (in un’intervista di qualche anno fa ha detto: “Non mi piacciono i numeri perché non li ricordo. L'unico numero che abbia mai ricordato è il numero 14 di Pollock(…)”, Morris Louis, Kenneth Noland, Mark Rothko, David Smith, Anthony Caro, Anne Truitt e l’ex marito Robert Motherwell (con cui organizzava sontuosi ricevimenti che riunivano tutto il bel mondo dell’epoca). Per realizzare questo progetto, oltre al materiale fornito dalla Helen Frankenthaler Foundation, gli organizzatori hanno dovuto ricorrere a prestiti di celebri musei e collezioni internazionali come quello del Metropolitan Museum of Art di New York, della Tate Modern di Londra, del Buffalo AKG Art Museum, della National Gallery of Art di Washington, della ASOM Collection e della Collezione Levett. Ne è uscita una mostra che è la più grande mai dedicata in Italia all’artista newyorkese e una delle più complete mai realizzate su di lei a livello internazionale.

"Siamo entusiasti di presentare l'opera di Helen Frankenthaler- ha detto il direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino- in una grande mostra senza precedenti in Italia, permettendo al pubblico di scoprire un'artista fondamentale del XX secolo. Con la sua ricerca innovativa, Frankenthaler si è distinta come figura pionieristica nel campo della pittura astratta, ampliandone le potenzialità in un modo che continua a ispirare ancora oggi nuove generazioni di artisti ".

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Del resto Helen Frankenthaler, figlia di un giudice della Corte Suprema e di una ricca signora di origine tedesca (entrambi di fede ebraica), partiva avvantaggiata. Lo studioso Alexander Nemerov in una biografia uscita nel 2021 (“Fierce Poise”) ha scritto: "Figlia dell'Upper East Side, non è mai stata una perdente. Aveva soldi, aveva mezzi e sapeva come farsi strada". Frankenthaler però non ha mai riposato sugli allori, da quando bambina, si interessò di colore e forme, vedendo uno smalto per unghie creare motivi inafferrabili nell’acqua del lavandino: studiò alla Dalton School (NYC) prima e al Bennington College nel Vermont poi; dopo la laurea si affinò privatamente con il pittore australiano Wallace Harrison e per un breve periodo con l’americano Hans Hofmann. Per quanto si sia a lungo concentrata sul lavoro dei cubisti, amava particolarmente Matisse e gli astrattisti europei. Tuttavia, ad aprirle le porte dell’ambiente artistico newyorkese di quegli anni fu il potente critico Clement Greenberg, con cui ebbe una relazione durata 5 anni (dal ’50 al ’55) che si chiuse burrascosamente (a una festa nel West Village, Greenberg la schiaffeggiò, colpendola talmente forte da farla piangere, incurante di tutti gli altri ospiti che stavano a guardare). Ad ogni modo è con lui che conoscerà l’opera di Pollock e capirà quanto una maniera di lavorare più libera e viscerale avrebbe potuto rendere unica la sua pittura.

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Helen Frankenthaler, infatti, dipingeva su grandi tele non trattate appoggiate sul pavimento (da una certa età in poi le sistemava, sempre orizzontalmente, su un supporto per non doversi piegare), muovendosi agilmente tra le grandi campiture di colore come se danzasse (per questo in alcune opere restano quasi impercettibili le sue impronte). Ma è la tecnica che si era inventata ad averla resa famosa: creava delle soluzioni acquose di colore mischiato a trementina e poi, come Pollock, versava i pigmenti direttamente sulla tela che li assorbiva in maniera disomogenea, facendoli propri (il problema di questa tecnica però, in seguito adottata da Morris Louis e Kenneth Noland, è che deteriora il supporto esigendo una continua manutenzione). I risultati sono liriche composizioni vibranti di sfumature, a volte translucide, che a momenti richiamano elementi del paesaggio, ma anche gesti e movimenti. Il tutto trasfigurato. Del resto, l’artista statunitense, che già da giovanissima aveva visto dal vivo e apprezzato i surrealisti, incoraggiava una lettura per libera associazione delle sue opere.

Ma non tutti i critici dell’epoca si entusiasmarono di fronte alla novità arrivando a definire le sue tele “stracci sporchi di colore”.

In genere dipingeva ad olio ma nel corso degli anni usò anche l’acrilico e sostituì la tela con la carta. Fece pure brevi incursioni nella scultura (in mostra a Firenze c’è, ad esempio, “Matisse table” ispirato all’opera di Caro), nella xilografia e nell’arte tessile (va ricordato che la sorella Gloria Ross è stata una designer molto nota per gli arazzi contemporanei realizzati in collaborazione con pittori e tessitori).

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Senza mai perdere lo slancio al cambiamento e all’innovazione, Frankenthaler, ha avuto una lunga carriera (che la mostra a Palazzo Strozzi ripercorre decennio per decennio) ed è stata testimone di momenti storici differenti. Da quando nel ’48 lei e un’amica visitarono il Vecchio Continente ancora devastato dal conflitto che si era appena concluso (Nemerov nel suo libro ha scritto: "un viaggio difficile, non da ultimo perché le banchine dove attraccavano le navi transatlantiche in Europa erano piene di bare di militari americani i cui corpi venivano ancora rispediti a casa tre anni dopo la fine della guerra"), fino a quando negli anni ’80 lei appoggiò la polemica contro a Robert Mapplethorpe (colpevole di aver rappresentato la sessualità gay in immagini decisamente esplicite) e Andres Serrano (che invece aveva fotografato un crocifisso immerso nell’urina) affermando:"Alzate il livello. Abbiamo bisogno di più intenditori di cultura". D’altra parte Frankenthaler era fatta così: non amava la politica e non le piaceva che l’arte si piegasse ai suoi capricci.

Le piacevano invece i mutamenti del paesaggio e l’oceano che ammirava dalle finestre della casa in cui si era trasferita insieme al suo secondo marito (DuBrul Jr, un famoso banchiere d’investimento) a Darien, nelle isole atlantiche, Long Island Sound. L’acqua, la luce e il continuo slittare della linea d’orizzonte di quell’angolo della Costa- est entreranno prepotenti in tutte le sue opere successive.

In un’intervista rilasciata nel 2000 disse: “Sono sempre stata sensibile alle meraviglie dell’ambiente naturale. Quando ero bambina portavo mia madre alla finestra della mia stanza nel nostro appartamento al tredicesimo piano di Manhattan e le chiedevo di guardare le nuvole, perché ero incantata da ciò che potevo vedere fuori dalle finestre, dagli spazi e dai mutamenti della natura”.

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

Per quanto il grande pubblico abbia imparato a conoscerla già dopo la retrospettiva che nel ’69 le dedicò il Whitney Museum of American Art (New York), Frankenthaler, è diventata anche (e suo malgrado) un’icona femminista per come il suo nome sia stato a lungo oscurato da quello dell’ex-marito Motherwell e in generale da colleghi maschi meno capaci.

Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole” è un’occasione unica per vedere dal vivo alcune tra le opere più rappresentative di Helen Frankenthaler (con il bonus di alcuni pregevoli: Pollock, Louis, Noland, Rothko, Smith, Truitt, Caro e Motherwell). Si potrà visitare a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 26 gennaio 2025.

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence.

"Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole" Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Exhibition view Photo: Ela Bialkowska, OKNO Studio. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, Florence. Copyrigth opere: Anthony Caro © 2024 The Anthony Caro Estate / The Design and Artists Copyright Society (DACS), London / SIAE, Roma Helen Frankehtaler © 2024 Helen Frankenthaler Foundation, Inc. / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma Morris Louis © 2024 Maryland College Institute of Art (MICA), Rights Administered by SIAE, All Rights Reserved Robert Motherwell © Dedalus Foundation, Inc. / Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma Kenneth Noland © Estate of Kenneth Noland / Licensed by VAGA at Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, RomaJackson Pollock © Pollock-Krasner Foundation / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma Mark Rothko © 1998 Kate Rothko Prizel & Christopher Rothko / Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma David Smith © 2024 The Estate of David Smith / Licensed by VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY / SIAE, Roma Anne Truitt © Bridgeman Images

Helen Frankenthaler nel suo studio della Third Avenue in una pausa del lavoro su Alassio (1960), New York, 1960. Courtesy Helen Frankenthaler Foundation Archives, New York. Photograph by Walter Silver © The New York Public Library / Art Resource, NY. Artwork © 2024 Helen Frankenthaler Foundation, Inc. / Artists Rights Society (ARS), NY.

Biennale di Venezia| “What Work Is” il Padiglione Romania di Șerban Savu tra realismo socialista e contemporaneità

Șerban Savu Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Courtesy

Dipinti figurativi che catturano scene sospese e mosaici sono le opere scelte da Șerban Savu per “What Work Is” il Padiglione Romania alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia. Savu, infatti, si interroga sul presente del Paese usando gli strumenti di propaganda del realismo socialista che però sovverte in maniera sottile.

Curata da Ciprian Mureşan la mostra ha due sedi: l’edificio dei Giardini in cui è in corso un’esposizione di pittura e l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Palazzo Correr. Già perché l’artista nato a Sighișoara (una cittadina nella storica regione della Transylvania) per tutta la durata della manifestazione lagunare dirigerà un team di mosaicisti delle scuole d’arte di Iaşi, in Romania e di Chişinau, in Moldavia, impegnati a creare una scena di pic-nic in scala monumentale che verrà poi installata in Moldovia (la cui storia è strettamente legata a quella rumena). Il mosaico era una tecnica ideale per questo progetto (che si ispira a un precedente dipinto di Savu), perché, tipico delle chiese ortodosse, conobbe un boom negli anni ’30 in tutti i paesi del blocco sovietico come forma di abbellimento (e propaganda) nella cornice altrimenti spoglia dell’architettura brutalista. Nicolae Ceaușescu prediligeva quelli che rappresentavano lavoratori eroici. Savu invece catturerà una scena di svago che porta alla mente la Francia borghese della seconda metà dell’800 e le pubblicità americane degli anni ’50. Con un’atmosfera, però, tipicamente est europea.

A Șerban Savu del resto piace dipingere immagini ibride: in bilico tra città e campagna, tra passato e presente, tra ordine e disordine. Ama anche quelle mistiche ma, pure in questo caso, non è la religione a interessarlo direttamente ma la sua fusione con l’arte sociale (per esempio: le chiese in fase di restauro dopo il crollo del Comunismo). Non a caso ai Giardini i suoi dipinti sono esposti come polittico: ben 45, a coprire la grande parete frontale dello spazio veneziano. Le opere, come anticipato dal titolo, sono dedicate al lavoro, o meglio ai momenti di sospensione dell’attività, che non si possono definire tempo libero ma nemmeno vacanza: ci sono archeologi che si riposano, un pescatore dorme accanto alle canne ecc.. Attraverso queste scene sospese, dove i protagonisti appaiono fuori posto e il mondo sembra aver smesso di girare, l’artista intende parlare del suo paese, della divisione delle patrie dei lavoratori migranti rumeni (che lavorano in un paese e spendono il loro tempo libero in un altro) ma anche porsi domande su cosa sia il lavoro stesso e quali siano i suoi confini. Apparentemente uno strano tema per la Biennale nel 2024, tuttavia, esprime il disagio delle popolazioni est europee nel affrontare la lunga fase di transizione che dal crollo del comunismo ha condotto allo stabilizzarsi del sistema capitalista.

Savu spiega così la questione: “Partendo dal tema del lavoro e del lavoratore, prediletto nell’arte realista-socialista, ma allontanandosi da esso, i personaggi delle mie opere non sono né eroici né utopici, sono persone comuni intrappolate tra mondi e sistemi, sfuggire sia alla propaganda che alla produttività economica. Questa sospensione tra lavoro e tempo libero delinea uno spazio anarchico, uno spazio di libertà personale, a cui faccio riferimento attraverso il filtro della storia dell’arte.”

Di nuovo ai mosaici si riferiscono i modellini di edifici installati nel Padiglione. Miniature di cui gli organizzatori scrivono: “I modelli, che vanno dal condominio in cui Savu è cresciuto a una chiesa in rovina e a un sito archeologico, presentano mosaici che si discostano dagli usi tradizionali di questo mezzo nell'arte religiosa e dalla glorificazione del lavoro nell'arte socialista. Invece di rappresentare conquiste industriali o scene mistiche, i mosaici di Savu trasmettono silenzio, ambiguità e confusione.

What Work Is” il Padiglione Romania di Șerban Savu (fino al 24 novembre), non è tra i più innovativi della la Biennale di Venezia 2024, ma esprime un punto di vista e una riflessione che difficilmente verrebbero in mente a un cittadino dell’Europa occidentale, per questo va visto. Senza contare che l’artista rumeno è un gran pittore e, la percentuale di costrizione realistico-socialista che impone alle sue composizioni, unita alla libertà espressiva che si concede, le rende misteriose e narrative ma soprattutto decisamente godibili.

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Andrea Avezzù  Courtesy: La Biennale di Venezia

Pavilion of ROMANIA WHAT WORK IS 60th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia Photo by: Matteo de Mayda Courtesy: La Biennale di Venezia