Sunshine State, il nuovo film intimo e sociale di Steve McQueen al Pirelli Hangar Bicocca

Steve McQueen, “Sunshine State”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Il film “Sunshine State” di Steve McQueen (Sir Steven Rodney McQueen) è il fiore all’occchiello della grande mostra che Pirelli Hangar Bicocca di Milano ha dedicato al regista inglese e che, infatti, dal recente lungometraggio prende il nome (“Steve McQueen Sunshine State”, in corso dal 31 marzo). Commissionato e prodotto dall’International Film Festival Rotterdam (IFFR) 2022, dove doveveva originarimente essere presentato, ha avuto una gestazione di 20 anni.

L’opera, fonde memoria personale e collettiva, cucendo “The Jazz Singer” (“Il Cantante Jazz”), primo film sonoro intepretato da Al Jolson, con riprese ravvicinate del sole. Mentre una storia, raccontata al regista da suo padre, viene frammentata e ripetuta in sottofondo.

Come anticipato da Artbooms, “Steve McQueen Sunshine State” (curata da Vicente Todolí e organizzata in collaborazione con la Tate Modern di Londra), si compone di 6 film che ripercorrono la carriera dell’artista vincitore del Turner Prize e del premio Oscar, e di una scultura. Quest’ultima però, non è "Weight" (come indicato nell’articolo di febbraio) ma "Moonlit". Per un totale di 7 opere.

Moonlit”, composta da due rocce marmoree rivestite da una lamina di foglia d’argento e messe l'una accanto all'altra, è un lavoro poetico e minimale. Che evoca allo stesso tempo, scoperta, echi primoridiali, e specularità ma soprattutto immagini di un cataclisma. La scultura, riflette le scene di “Sunshine State” che le sta accanto, generando una sorta di eco sorda e metaforica.

La nascita di “Sunshine State” si protrae così avanti nel tempo rispetto all’idea che l’ha generato, perchè McQueen non riusciva ad ottenere i diritti di “The Jazz Singer”. Il vecchio film però era fondamentale per il regista, perchè oltre ad essere recitato in blackface, è una pietra miliare della storia del Cinema: il primo sonoro, quello che con i suoi incassi salverà la Warner Bros (in quel periodo sull’orlo del fallimento). Senza contare che il successo della pellicola in bianco e nero, mostra inequivocabilmente quanto stereotipi e pregiudizi sulle persone di colore fossero accettati e condivisi.

Mentre McQueen stava ancora cercando di ottenere i diritti di “The Jazz Singer”, il padre gli racconterà cosa gli era successo mentre raccoglieva arance come lavoratore stagionale in Florida (comunemente chiamata, appunto Sunshine State). Una sera di tanti anni prima, gli dice, era uscito con due uomini che conosceva appena per bere una birra. Ma uno scontro violento e razzista lo aveva costretto a trascorre la serata da solo, nascosto in un fosso. Questa storia in “Sunshine State” si ripete e si dilata, fino a quando i dialoghi non si concludono con la frase: "Pensavo che mio padre si stesse trattenendo, ma mi teneva stretto".

"Ciò che è stato interessante per me- ha detto il regista londinese- è stato il modo in cui il film, The Jazz Singer, e la storia di mio padre si sono fuse e poi c'era l'intimità di tutto questo".

Sia oggi che venerdì (5 e 6 maggio 2022) per vedere il film inedito di Steve McQueen “Sunshine State” e visitare la mostra di cui l’opera è il fulcro, sarà necessario attendere fino alle 20. (Metaspore” di Anicka Yi, invece, sarà accessibile anche in giornata). Poi però, le visite proseguiranno fino a mezzanotte. Per ascoltare il regista dal vivo al Pirelli Hangar Bicocca di Milano conversare con la studiosa Cora Gilroy-Ware, bisognerà, infine, aspettare fino a venerdì 13 maggio.

Steve McQueen, Caribs’ Leap, 2002 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Commissionato da documenta e Artangel, con il supporto di Heinz & Simone Ackermans © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Sunshine State, 2022 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Opera commissionata per l’International Film Festival Rotterdam (IFFR) 2022 Fotogramma da The Jazz Singer. Courtesy Warner Bros. Pictures © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Caribs’ Leap, 2002 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Commissionato da documenta e Artangel, con il supporto di Heinz & Simone Ackermans © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Moonlit, 2016 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Sunshine State, 2022 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Opera commissionata per l’International Film Festival Rotterdam (IFFR) 2022 Fotogramma da The Jazz Singer. Courtesy Warner Bros. Pictures © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, “Sunshine State”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Cold Breath, 1999 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Static, 2009 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Western Deep, 2002 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Commissionato da documenta e Artangel, con il supporto di Heinz & Simone Ackermans © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Charlotte, 2004 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, “Sunshine State”, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Sunshine State, 2022 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Opera commissionata per l’International Film Festival Rotterdam (IFFR) 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Steve McQueen, Sunshine State, 2022 Veduta dell’installazione, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2022 Opera commissionata per l’International Film Festival Rotterdam (IFFR) 2022 © Steve McQueen. Courtesy l’artista, Thomas Dane Gallery, Marian Goodman Gallery e Pirelli HangarBicocca, Milano Foto Agostino Osio

Biennale di Venezia 2022| "Dreams have no Titles" lo sfavillante e caleidoscopico Padiglione Francia di Zineb Sedira

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

I Sogni non hanno titolo” (“Dreams have no Titles) è un intervento caleidoscopico e sfavillante, come si addice solo ai ricordi. Quelli più belli. Un cinematico gioco di specchi che l’artista Zineb Sedira (nata in un sobborgo di Parigi da genitori di origine algerina) ha messo in scena al Padiglione Francia per la 59esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia.

Composta da un film e un’installazione, in cui i confini tra finzione e realtà, personale e collettivo, passato e presente si fondono, l’opera francese, si è meritata una menzione speciale della giuria per le migliori partecipazioni nazionali (insieme all’Uganda). Onorificenza superata soltanto dal Leone d’Oro assegnato alla britannica Sonia Boyce (le due donne sono amiche anche e si frequentano, dato che Sedira vive in Inghilterra dai tempi dell’università).

In concreto, l’artista, ha ricostruito a Venezia il cinema della sua adolescenza: il Cinéma Jean Vigo di Gennevilliers. Non quello dove accompagnava il padre con i nastri nei capelli a vedere spaghetti-western e le grandi produzioni hollywoodiane come “Cleopatra”, ma una sala che aveva imparato ad amare perché proiettava film militanti e anti-colonialisti oltre a quelli d’autore. Sullo schermo però ‘sta volta scorre la sua pellicola. Che naturalmente prima di tutto è un film sui film. E su quelli che celebrano l’indipendenza algerina in particolare.

Nel suo film- spiegano gli organizzatori- alterna remake di scene di film appartenenti al cinema militante degli anni Sessanta e Settanta, a sequenze di making of del suo film (…) L’artista trae ispirazione da diverse pellicole emblematiche della settima arte(…) La voce fuori campo (quella dell’artista ndr.), invece, narra la storia della sua vita della sua famiglia e sulla sua comunità

Per realizzare questo film Zineb Sedira ha fatto lunghe ricerche d’archivio in Italia, Francia e Algeria. Dato che i film che le interessavano erano quelli immediatamente successivi all’Indipendenza algerina. E di solito erano co-produzioni tra questi tre paesi. Il motivo è presto detto: “L’opera dell’artista coniuga, autobiografia, finzione e documentario. NeI Sogni non hanno Titolo, questi tre registri si mescolano per mettere in risalto la solidarietà internazionale, che fa da sfondo ed è rappresentata dall’indipendenza dell’Algeria, acquisita nel 1962 (…)”.

Durante queste lunghe ricerche ha persino ritrovato una pellicola che si credeva perduta: “Le mani libere” (o “Tronco di fico”) del regista italiano Ennio Lorenzini.

Il film di Sedira culmina in un ballo, che il protagonista comincia dopo aver bevuto qualcosa al bancone di un bar. Nell’altra sala, infatti, ritroviamo lo stesso bancone, lo stesso cameriere, gli stessi attori che ballano di fronte ai nostri occhi. Ma ci sono anche i riflettori e gli oggetti di scena oltre ad altre meticolose ricostruzioni di luoghi e cose servite all’artista a mettere insieme l’opera o che hanno segnato la sua biografia (e che quindi l’hanno portata e concepirla). In sostanza, Zineb Sedira, ci sospende in una dimensione atemporale in cui passato e presente si rincorrono circolarmente. In francese questa tecnica si chiama mise en abyme (letteralmente messa nell’abisso, termine poetico e un po’ inquietante che indica una scena che è il riflesso di un riflesso e quindi si riproduce all’infinito). Ma ci regala anche la possibilità di essere parte della nascita del lavoro stesso, condividendo l’energia creativa e la gioia del suo momento culminante.

Metaforicamente, poi, ci invita a partecipare al sogno. Quello delle pellicole da cui il film trae ispirazione, quello del film, quello dell’artista o della sua comunità, poco importa. Perché mentre lo fa, Sedira, indaga con noi sul concetto di memoria collettiva e mette in discussione quello di autenticità.

“I Sogni non hanno titolo” (“Dreams have no Titles”) è curato da: Yasmina Reggad, Sam Bardaouil e Till Fellrath. L'opera di Zineb Sedira occcuperà il Padiglione Francia per tutta la durata della 59esima Esposizione Internazionale d'Arte Biennale di Venezia.

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

Les rêves n'ont pas de titre © Thierry Bal et © Zineb Sedira

Pavilion of FRANCE, Les rêves n’ont pas de titre / Dreams have no titles. 59th International Art Exhibition - La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by:Marco Cappelletti Courtesy La Biennale di Venezia

A Letter from the Front: Gli artisti ucraini mandano film dalla guerra, mentre un'organizzazione lavora per metterli in salvo

Oleksiy Sai, The longest, the most productive - Deep cleansing power, 2021, color, sound, 3:29 min. Courtesy the artists

Nel 2009 l’artista ucraino Oleksiy Sai è stato inserito nella ristretta rosa di candidati al prestigioso premio del Pinchuk Art Centre. Da quel momento in avanti ha esposto in numerose sedi ma nulla è paragonabile alla visibilità che la sua opera ha ricevuto dalla stampa nelle ultime settimane. D’altra parte con una serie intitolata Bombed (composta da rappresentazioni di mappe aeree del Donbas bucate con una smerigliatrice, a simulare la devastazione dei bombardamenti), non poteva essere altrimenti.

E’ quello che ha attirato l’attenzione del New York Times che recentemente ha raccontato la fortunata storia dei galleristi Julia e Max Voloshyn (si sono presi il covid e non sono potuti partire poi è scoppiato il conflitto) e della loro mostra pop-up di Miami prorogata ad oltranza, di cui l’opera di Sai faceva parte. Non si sa se l’artista sia stato tra quelli che si sono rifugiati nella galleria dei coniugi Voloshyn a Kiev (è sotto un palazzo di sette piani ed è stata un rifugio anti-aereo nella seconda guerra mondiale, così gli artisti della galleria sono stati invitati a usarla come riparo).

Di certo l’opera di Oleksiy Sai fa parte della mostra A Letter from the Front (Una Lettera dal Fronte; Ein Brief von der Front) organizzata dal Castello di Rivoli (Torino), in collaborazione con il museo d’arte contemporanea di Monaco, Haus der Kunst. Insieme a quella di: Yaroslav Futymsky, Katya Libkind, AntiGonna con Nikita Kadan, Yarema Malashchuk, Roman Himey, REP, Nikolay Karabinovych, Dana Kavelina, Daniil Revkovsky, Andriy Rachinsky, Alina Kleytman, Lada Nakonechna, Yuri Leiderman con Andrey Silvestrov, Lesia Khomenk®, Mykola Ridny.

L’opera in questo caso è un video, come quella di tutti gli altri artisti ucraini, chiamati in fretta e furia a fare un ritratto di una terra diventata tristemente centro delle cronache.

"Alcuni degli artisti ucraini che partecipano a questo evento con le loro opere - spiegano gli organizzatori- sono attualmente intrappolati nelle città assediate o sono fuggiti nelle zone di confine o nei paesi limitrofi. Si mobilitano all'interno o al di là dei confini di un paese dilaniato dalla guerra, sfidando le distanze con i loro corpi. Alcuni di loro non hanno potuto salvare i loro dischi rigidi prima di lasciare le loro case e gli studi. Pertanto, nell'ambito di questo progetto, le opere d'arte possono essere mostrate solo nella forma in cui sono state archiviate digitalmente su server, cloud e piattaforme web".

Curiosamente le opere in mostra (ed alcune in particolare) sono animate da una tensione intensa che annichilisce chi le guarda anche se sono tutte ampiamente precedenti allo scoppio del conflitto.

A Letter from the Front dopo essere stata esposta al Castello di Rivoli (dal 10 al 13 marzo soltanto), va in scena all’Haus der Kunst di Monaco con tempi un po’ meno compressi (da ieri fino al 5 aprile). Tuttavia è possibile vedere i video anche online sul sito del museo torinese.

Mostre a parte, la vita degli artisti come degli altri civili in Ucraina, resta precaria. Ad andare in loro soccorso ci pensa l’organizzazione senza scopo di lucro Artists at Risk. Cui l’esposizione A Letter from the Front fa riferimento e che da qualche anno a questa parte si occupa proprio di mettere in salvo gli artiti minacciati da un governo ostile, ma soprattutto da veri e propri conflitti armati. Si può contribuire ad Artists at Risk, mettendo a disposizione un alloggio, o comperando un’opera grafica (donata all’associazione da alcuni tra i nomi più noti dell’arte contemporanea come Nan Goldin, Julian Schnabel o Luc Tuymans).

Yaroslav Futymsky, Flag is burning, 2019, color, sound, 1:51 min. Courtesy the artist

Lesia Khomenkо, Self-portrait, 2013, 7:33 min. Courtesy the artist

AntiGonna Enter the War, 2017, color, sound, 3:57 min. Courtesy the artist

R.E.P. Smuggling, 2007, color, sound, 10 min. Courtesy the artists

Dana Kavelina, There are no Monuments to Monuments, 2021, color, sound, 34:35 min. Courtesy the artist