L’artista della globalizzazione e del nazionalismo Yukinori Yanagi tornerà sulla scena internazionale al Pirelli Hangar Bicocca nella nuova era post-globale

Yukinori Yanagi Hinomaru Illumination, 2010 Neon, neon transformer, programming circuit, painted steel, mirror, water 220 x 450 x 660 cm Permanent installation, ART BASE MOMOSHIMA, Hiroshima Photo Road Izumiyama

Icarus la prima antologica europea di Yukinori Yanagi
La mostra dell'artista al Pirelli Hangar Bicocca di Milano

All’apice della fama tra gli anni ’90 e i primi del 2000 (non a caso, proprio nel momento di prima maturità della globalizzazione), Yukinori Yanagi sta tornando ad esporre a livello internazionale dopo aver passato un lungo periodo della sua vita su isole asiatiche remote (in cui ha costruito musei ridando slancio ad architettura, economia, turismo e demografia, oltre a consegnare ai posteri la sua opera).

E una delle tappe più importante di questa ripartenza sarà proprio in Italia il mese prossimo, quando si inaugurerà “Icarus”. La mostra, che si terrà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, infatti, sarà la prima antologica mai dedicata in Europa al sessantacinquenne giapponese.

Originario della prefettura di Fukuoka, nel Giappone meridionale, il signor Yanagi, con le sue opere concettuali ma visivamente accattivanti, esplora temi complessi come globalizzazione, tecnologia, nazionalismo, dinamiche governative e paradossi delle società attuali. Senza dimenticare materie particolarmente sensibili (in Giappone) come il sistema imperiale e la costituzione dell’arcipelago nipponico (non nacque spontaneamente ma venne imposta dagli americani alla fine della guerra). Per questo è considerato uno dei primi artisti contemporanei ad essere stati apertamente critici nei confronti della società e della politica governativa giapponese.

A regalargli il successo internazionale però furono le formiche.

Yukinori Yanagi The World Flag Ant Farm, 1990 Ants, colored sand, plastic boxes, plastic tubes, plastic pipes, monitors 180 boxes, 24 x 30 cm (each) Installation view, Benesse House Museum, Naoshima, Kagawa, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO Collection of Benesse Holdings, Inc., Okayama

Intenti a scavare gallerie nelle bandiere di sabbia, erodendole e portando granelli dell’una in quelli dell’altra, i minuscoli insetti, protagonisti della serie “Ant Farm”, gli permisero di aggiudicarsi il premio Aperto (allora Aperto era la sezione dedicata agli artisti più attuali) alla Biennale di Venezia del ’93. Da quel momento in avanti il signor Yanagi si era guadagnato un posto sul palco globale dell’arte contemporanea; da cui avrebbe affrontato gli argomenti che gli stavano a cuore, attraverso un linguaggio capace di fondere cultura alta e bassa (sono frequenti i riferimenti ad insegne, personaggi di fantasia e anime). Tuttavia questa posizione privilegiata gli avrebbe portato anche delle grane (a cominciare dalla resistenza in patria verso alcune sue opere che toccavano nervi scoperti della rappresentazione dell’identità giapponese).

Ai tempi Yukinori Yanagi abitava negli Stati Uniti, dove aveva affrontato parte dei suoi studi (è stato borsista d’arte a Yale con Vito Acconci e Frank Gehry) e dove si era trasferito stabilmente dopo aver vinto Aperto alla Biennale. Del resto non avrebbe potuto fare altrimenti, visto che al principio della sua carriera aveva la sensazione di “essere intrappolato in una gigantesca bandiera giapponese, in una gabbia, inghiottito dall'identità nazionale”. In quel periodo le sue opere furono acquisite dal Moma di New York, dal Virginia Art Museum e della Tate di Londra. Ma quel ciclo era destinato a concludersi e se ne tornò in Giappone.

In un’intervista ha detto: "In un certo senso, avevo raggiunto un certo livello di successo in Occidente, ma sono sfuggito dalle 'restrizioni' che derivavano dalla fama che avevo acquisito lì e sono finito su un'isola in Giappone”.

Inujima Seirensho Art Museum, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO

Prima c’è stata Inujima, un'isola nel Mare interno di Seto (al largo della costa della città di Okayama nel Giappone centro-meridionale) che nel 2017 contava una popolazione di 47 abitanti, dove c’erano i resti di una raffineria di rame abbandonata all’inizio del ‘900 e che “veniva utilizzata per depositare rifiuti”. Il signor Yanagi lì ha costruito un museo innovativo e completamente ecosostenibile (mantiene la stessa temperatura tutto l’anno attraverso l’energia di terra, vento e sole che lo illuminano pure). Al Inujima Smelter Museum è seguito il Momoshima Art Base sulla minuscola isola di Momoshima (al largo della città di Onomichi nella prefettura di Hiroshima) e poi un altro sull’isola di Anjwa in Corea del Sud (probabilmente si chiamerà Museo Galleggiante e dovrebbe essere inaugurato nella primavera di quest’anno).

Riguardo il suo impegno verso delle isolette sperdute ha spiegato: “Ho sempre amato le navi e sono il tipo di persona che non riesce a creare arte se non è vicino al mare. Penso che le isole siano come una versione in miniatura del Giappone”.

Se lo spirito provocatorio e la predilezione per temi politici del signor Yanagi, si possono leggere come dirette conseguenze della sua storia famigliare (il padre si arruolò volontario come pilota kamikaze durante la seconda guerra mondiale), l’interesse per i confini si deve alla posizione geografica della loro casa (vista la vicinanza della costa di Fukuoka alla Corea, il piccolo Yukinori raccoglieva oggetti trasportati dal mare da un Paese straniero). Nipote dell’artista d’avanguardia Miyazaki Junnosuke, fin da bambino era abituato all’arte contemporanea e, spesso, si inventava giochi che includevano la partecipazione delle formiche e di altri insetti.

A Milano oltre a dipinti in cui lui ha seguito con il pennello il percorso di una formica, ci sarà una grande versione di Ant Farm: “The World Flag Ant Farm 2025” (composta da duecento bandiere di sabbia in scatole di plexiglass che rappresentano i 193 Stati riconosciuti dalle Nazioni Unite e 7 stati che non sono membri delle Nazioni Unite come Taiwan, Tibet e Palestina. Le bandiere saranno collegate da tubi in cui si muoveranno migliaia di formiche). Altre installazioni fondamentali nel percorso dell’artista giapponese ma soprattutto un gruppo di opere completamente nuove completeranno l’importante antologica.

La mostra “Icarus” (il nome, ispirato al mito greco, fa riferimento ai pericoli della tecnologia) di Yukinori Yanagi sarà al Pirelli Hangar Bicocca di Milano dal 27 marzo al 27 luglio 2025. Un periodo particolarmente azzeccato, se si pensa che solo da poco il mondo è entrato in una nuova era post-globale.

Yukinori Yanagi Icarus Cell, 2008 Iron corridor, mirrors, frosted glass, video, sound Permanent installation, “Hero Dry Cell,” Inujima Seirensho Art Museum, Okayama, Japan, 2008 Photo Road Izumiyama Collection of Fukutake Foundation, Naoshima

Yukinori Yanagi Wandering Position, 1997 Ant, steel angle, wax-crayon, monitor 520 x 520 cm Installation view, Chisenhale Gallery, London, 1997 Photo YANAGI STUDIO

Yukinori Yanagi Article 9, 1994 Neon, plastic box, print on transparency sheet, acrylic frame Dimensions variable Installation view, 8. Busan Biennale, 2016 Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi Absolute Dud, 2007 Iron 305 x ⌀ 76 cm Installation view, BankART Studio NYK, Yokohama, Kanagawa, Japan, 2016 Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi Project God-Zilla Onomichi U3, 2017 Mixed media, scraps from a demolished house, mirrors, acrylic, video, sound Installation view, Nishigosho Prefectural Warehouse No.3, Hiroshima, Japan, 2017 Photo YANAGI STUDIO

Yukinori Yanagi Banzai Corner, 1991 Plastic toys, mirror 112 x 239 x 241 cm Permanent installation, ART BASE MOMOSHIMA, Hiroshima, Japan Photo Road Izumiyama

Yukinori Yanagi The World Flag Ant Farm, 1990 Ants, colored sand, plastic boxes, plastic tubes, plastic pipes, monitors 180 boxes, 24 x 30 cm (each) Installation view, Benesse House Museum, Naoshima, Kagawa, Japan, 2008 Photo YANAGI STUDIO Collection of Benesse Holdings, Inc., Okayama

Yukinori Yanagi Portrait Photo Hideyo Fukuda

Tra colori acidi e momenti da incubo sci-fi Luisa Gagliardi al MASI di Lugano

Louisa Gagliardi Night Caps 2022 Pittura gel e inchiostro su PVC Collezione privata, Basilea © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Le Many Moons di Luisa Gagliardi
La mostra al MASI di Lugano (lettura automatica)

 In un quadro (“Deluge”) una donna si guarda riflessa nel soffione metallico della doccia, mentre le gocce d’acqua le piovono addosso: l’atmosfera è disturbante, lo spettatore viene messo (a viva forza) nei panni della protagonista e non gli calzano affatto. In un’altra (“Night Caps”), chi guarda si trova sovrastato da funghi altissimi, con ogni probabilità velenosi (e allucinogeni), sulla cui sommità si chinano tre volti, sovrastati dalla luna; anche qui non se la passa bene: perché quei tre sguardi puntati su di lui non promettono niente di buono.

D’altra parte Luisa Gagliardi, l’artista svizzera che ha pazientemente composto queste e molte altre opere dello stesso tenore, ha spesso dichiarato che considera l’osservatore parte fondamentale della sua poetica. L’unico in grado di attivarne l’universo.

Non che la signora Gagliardi abbia una vena sadica ma ritiene fondamentale alzare la soglia di attenzione del pubblico; coinvolgendolo direttamente nell’atmosfera misteriosamente contemporanea, sapientemente tinta di note sci-fi, di quelli che potrebbero sembrare dipinti ma che in realtà sono elaborazioni digitali. Con espedienti da fim o da serie TV di alto livello (pure se il mix di riferimenti a cui attinge è ben più vasto e spazia fino alla storia dell’arte meno recente).

Nata a Sion (nel cantone vallese, non lontanissimo dal confine italiano della Val d’Aosta) nell’89, Luisa Gagliardi (che adesso vive a Zurigo), dalla scorsa settimana è protagonista di una mostra al Museo della Svizzera Italiana di Lugano (il MASI). La personale, intitolata “Many Moons”, si dipana negli ampi ed immacolati spazi del LAC (la sede in vetro e cemento affacciata direttamente sul lago), e comprende due nuovi cicli pittorici monumentali oltre ad una serie di sculture create per l’occasione. E’ pure un’iniziativa importante, persino sontuosa, da dedicare ad un’artista ancora relativamente giovane. E, malgrado non costituisca una mossa inconsueta per l’istituzione svizzera, dimostra l’interesse (anche commerciale) suscitato dal suo lavoro.

Louisa Gagliardi Roundabout 2023 Smalto per unghie, pittura gel e inchiostro su PVC Ringier Collection, Switzerland © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Le scene immaginate dalla signora Gagliardi piacciono. Un po’ metafisiche un po’ surreali, un po’ psicologiche un po’ fantascientifiche, possono sembrare fin troppo accondiscendenti verso il gusto dei più. Tant’è vero che ad Art Basel (la famosa fiera svizzera che lei conosce e frequenta fin da bambina perché figlia di appassionati d’arte e di cui ha detto: "Si tratta di 7 giorni di importanti momenti condensati e tutti, galleristi, collezionisti e critici, sono lì. E sei circondata da tutti i tuoi idoli") lo spazio a lei concesso non ha fatto altro che crescere (come le sue quotazioni, non stratosferiche ma già piuttosto sostenute). Tuttavia in lei c’è di più. Sia nei soggetti che introducono soluzioni innovative (stranamente, visto quanto le atmosfere messe in scena siano state sfruttate nel tempo), che nello stile. L’artista, infatti, non si limita a dipingere ma simula la pittura con i media digitali (estendendone il campo d’applicazione e mettendone in discussione il concetto). Come prima cosa fa un bozzetto, poi sviluppa digitalmente un’immagine che raffina e completa passo a passo fino a stamparla su vinile, a quel punto interviene con gel trasparenti, vernici, glitter e smalti per unghie economici. A finire un singolo lavoro ci mette circa un anno.

La curatrice di “Many Moons”, Francesca Benini, ha spiegato: “La qualità ibrida delle opere di Louisa Gagliardi rappresenta in fondo perfettamente lo spazio in cui oggi avviene l’esperienza umana, nel quale i confini tra concreto e virtuale, tra intimità e visibilità, tra appartenenza e alienazione, tra voyeurismo ed esibizionismo, si confondono

Storicamente le innovazioni tecnologiche sono accolte in modo ambiguo: da una parte stupiscono, confortano persino, dall’altra suscitano apprensione e paura. Forse per questo le opere della signora Gagliardi, mentre lucide di smalto per unghie su PVC sfoggiano una tavolozza acida applicata a bizzarri soggetti sovradimensionati, sono così cariche d’inquietudine. Probabilmente sono proprio la digitalizzazione di massa e l’imporsi dell’intelligenza artificiale (che hanno accompagnato il percorso dell’artista svizzera dai primi anni 2000 fino ad oggi), la chiave di lettura di un mondo che riesce a sovrapporre momenti degni di “Black Mirror” alla quotidianità.

Non a caso parla spesso del confine che separa il sé riflesso dallo schermo dello smartphone da quello reale. Altri lavori, invece, evocano la catastrofe ecologica o semplicemente il conflittuale rapporto che passa tra una società civilizzata e natura. Mentre il campo del controllo attraverso la tecnologia si insinua in un ampio numero di opere.

In merito Benini ha aggiunto: “L'ambiguità tra realtà e rappresentazione è un tema centrale nella ricerca artistica di Louisa Gagliardi. L’atto di creare un mondo alternativo attraverso la pittura, nel quale entrare visivamente, si lega inevitabilmente alla capacità dei mezzi digitali di estendere lo spazio vitale e generare una realtà parallela, quest’ultima abitabile non solo idealmente

C’è poi un aspetto psicologico atemporale che attinge a paure varie come quella dell’ignoto, o quella di attrarre l’attenzione di potenziali predatori, fino ad una vaga minaccia al senso d’identità dell’osservatore. Oltre al fatto che i dipinti dell’artista svizzera sono fotogrammi di storie a noi sconosciute e non necessariamente destinate ad avere un happy end.

La mostra “Many Moons” di Luisa Gagliardi rimarrà al MASI di Lugano fino al 20 luglio 2025.

Louisa Gagliardi Birds of a Feather 2023 Smalto per unghie e inchiostro su PVC Collezione privata, Austria © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Chaperons 2023 Pittura gel e inchiostro su PVC Ringier Collection, Switzerland © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Cascade 2023 Pittura gel e inchiostro su PVC Collection Pictet © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Visitors 2024 Pittura gel e inchiostro su PVC Galerie Eva Presenhuber, Eva Presenhuber, Zürich © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Veduta dell’allestimento, “Louisa Gagliardi: Many Moons”, MASI Lugano, Svizzera. Foto Luca Meneghel © the artist

Louisa Gagliardi Revealing 2022 Pittura gel, smalto per unghie e inchiostro su PVC Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano. Collezione Città di Lugano © the artist Foto: Stefan Altenburger Photography, Zürich

Luisa Gagliardi fotografata accanto a una sua opera Courtesy the artist and Galerie Eva Presenhuber Photo: Gertraud Presenhuber

“When we see us”: la blackness in un affresco senza tempo e senza luogo firmato da Koyo Kouoh (che curerà la prossima Biennale di Venezia)

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

"when we see us" un secolo d'arte nera al Bozart
La mostra è firmata da Koyo Kouoh che curerà la Biennale di Venezia 2026

In un parco apparentemente distante dal traffico cittadino un ragazzo e una ragazza si concentrano l’uno sull’altra, il loro atteggiamento è rilassato, intenerito, forse stanno chiacchierando e malgrado si possa immaginare il tono scuro della loro pelle, le innumerevoli sfumature di blu che compongono l’immagine rendono la caratteristica una vaga congettura. Non molto lontano, invece, un uomo mette in risalto la sua carnagione nerissima con un completo turchese, una camicia bianca e un fiore arancio, è vanitoso (si intuisce fiero di essere guardato), mentre appare al centro di un dipinto dai toni vivi, quasi caraibici.

Sono protagonisti diversi di opere diverse. Tutti però accumunati dall’essere neri, colti in un momento ordinario (diventato straordinario attraverso l’arte). E felici di essere vivi.

Il romantico pic-nic monocromatico (“Blue Park Lovers”) dell’artista originario del Missuri (che adesso vive in Connecticut) Dominic Chambers; e il ritratto variopinto (“View of Yoei William”) del ghanese-statunitense, Otis Kwame Kye Quaicoe; sono solo due delle innumerevoli interpretazioni della blackness espresse in “When We See Us: A Century of Black Figuration in Painting”. La mostra, che si è inaugurata il 7 febbraio scorso al Centro per le Arti Bozar di Bruxelles (Belgio), curata da Koyo Kouoh e Tandazani Dhlakama, è infatti, un affresco senza tempo ne luogo sull’autorappresentazione nera.

Malgrado “When We See Us”, ideata e promossa dallo Zeitz MOCAA di Città del Capo (il museo sudafricano diretto dal critico camerunense, Koyo Kouoh), sia stata già allestita lo scorso anno al Museo d’Arte di Basilea (Svizzera), è balzata al centro dell’interesse del pubblico internazionale da quando la signora Kouoh è stata nominata curatrice della Biennale di Venezia del prossimo anno (quello belga è il primo evento europeo a sua firma da allora).

Dominic Chambers, Blue Park Lovers, 2020. Jorge M. Pérez Collection, Miami © Courtesy of the artist and Luce Gallery

La mostra, che ispira il proprio titolo alla famosa serie Netflix del 2019 “When They See Us” della regista Ava DuVernay, espone opere di artisti africani, afroamericani e della diaspora, per di più nati in periodi storici molto differenti (il lavoro più antico è datato 1930 mentre il più recente è di appena due anni fa). D’altra parte “When We See Us”, chiarisce di non avere pretese ortodosse, nel momento in cui rinuncia a disporre in successione cronologica le opere, e a raggrupparle in base al paese di origine o di residenza degli artisti, ma sceglie invece di dividere il materiale in sei capitoli diversi (Quotidianità; Riposo; Trionfo ed Emancipazione; Sensualità; Spiritualità; Gioia e Svago) accumunati da un approccio nuovo all’argomento.

When We See Us”, infatti, rispetto alla serie di DuVernay (afroamericana anche lei; racconta la storia vera di un gruppo di bambini di colore ingiustamente condannati per un grave reato che non avevano commesso) decide di dar conto della gioia di essere neri.

Koyo Kouoh e la co-curatrice della mostra Tandazani Dhlakama, hanno così spiegato la loro scelta: "Questa mostra si rifiuta di mettere in primo piano il dolore e l'ingiustizia e invece ci ricorda che l'esperienza dei neri può anche essere vista attraverso la lente della gioia. Per celebrare il modo in cui gli artisti africani e della sua diaspora hanno immaginato, posizionato, commemorato e affermato le esperienze africane e degli afrodiscendenti, la mostra contribuisce al discorso critico sui movimenti di liberazione, intellettuali e filosofici africani e neri".

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

La signora Kouoh sembra poi dirci che il mondo è piccolo e quello dell’arte lo è ancora di più: gli artisti di colore (come gli altri, del resto) si informano e si guardano vicendevolmente, alla ricerca di un’identità nera condivisa, ma soprattutto nel tentativo di trovare le travi portanti di una storia dell’arte a loro misura.

I numeri di “When They See Us”(in effetti piuttosto impressionanti) si spiegano proprio in quest’ottica. Con 52 prestatori provenienti da 17 paesi e 5 continenti, l’esposizione, presenta la bellezza di 155 opere di 118 artisti diversi. Alcuni conosciuti (ci sono ad esempio: la famosa pittrice britannica Lynette Yiadom-Boakye; oltre agli afroamericani Kehinde Wiley ed Amy Sherald che vennero scelti per fare i ritratti ufficiali dell’ex presidente Obama e dell’allora first lady) altri meno. Tanto diversi che l’autodidatta afroamericana Clementine Hunter (nata in Luisiana nel 1887 e scomparsa a 99 anni dopo aver lavorato in una piantagione e conosciuto il successo artistico in tarda età) è esposta insieme alla sudafricana ventiseienne, Zandile Tshabalala.

Sempre da questo punto di vista va guardata la cronologia grafica in mostra (che dalla Rivoluzione haitiana arriva al movimento Black Lives Matter). E il paesaggio sonoro del compositore e sound artist sudafricano Neo Muyanga, che riecheggia di musiche provenienti da tutto il mondo in risposta ai vari capitoli della mostra.

Stilisticamente, invece, si può dire che la signora Kouoh abbia preferito dar voce a una moltitudine di dialetti della stessa lingua madre, visto che pur esponendo artisti figurativi (il più delle volte pittori) ci fa notare quanto le loro forme espressive si discostino le une dalle altre con tessuti e glitter che fanno la loro comparsa accanto a pennellate e tavolozze ben distinte.

Pur se tutte le opere sono accostate o giustapposte per mettere in luce nuove similitudini (che senza il loro incontro non sarebbe stato possibile cogliere)

Nell'ultimo decennio- ha detto la curatrice- la pittura figurativa di artisti neri ha raggiunto una nuova importanza nell'arte contemporanea. Non c'è momento migliore per una mostra di questa natura, che collega queste pratiche e rivela i contesti storici più profondi e le reti di genealogie artistiche complesse e sottorappresentate che derivano dalle modernità africane e nere; una mostra che dimostra come più generazioni di tali artisti si siano deliziate e si siano impegnate in modo critico nel proiettare varie nozioni di nerezza e africanità”.

Le opere poi, lungi dall’essere appese su muri bianchi senza nulla che distragga lo sguardo, sono evidenziate da pareti intensamente laccate, con colori in qualche modo contrastanti per rendere ancora più drammatico il passaggio da un punto di vista all’altro. Anche in questo Koyo Kouoh dimostra momenti di contatto con lo stile curatoriale del brasialiano Adriano Pedrosa (dirige il Museu de arte de São Paulo e ha firmato la scorsa edizione della Biennale di Venezia).

When We See Us”, esteticamente, è una mostra dalla forte personalità e, malgrado sia fuori dagli schemi, non rinuncia né a lavorare su una Storia dell’arte in versione black, né a riflettere sugli strumenti di lavoro necessari ad una nuova critica. Come testimoniano le tante pubblicazioni messe a disposizione dei visitatori (monografie, cataloghi di mostre, testi di teoria critica e raccolte, compresi scritti importanti che hanno plasmato il canone storico dell'arte nera). La scelta di evitare il solito copione (incluso il razzismo) poi, è segno di una acuta sensibilità (molto femminile) che sottolinea la forza, la libertà e l’autosufficienza delle persone di colore.

When We See Us” è il risultato dell’ampia ricerca di Koyo Kouoh sull’arte nera e rimarrà nelle spaziose sale dell’edificio liberty in cui ha sede il Bozar (nel cuore del quartiere reale di Bruxelles) fino al 10 agosto 2025. All’esposizione il museo ha affiancato eventi di ogni genere (concerti, conferenze, dibattiti, aperture notturne, visite guidate, film, spettacoli, e persino videogiochi).

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Otis Kwame Kye Quaicoe, View of Yoei William, 2020.© Courtesy the artist and Roberts Projects, Los Angeles, California; Foto Mario Gallucci

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Wangari Mathenge (b.1973, Nairobi, Kenya) Sundials and Sonnets 2019 Oil on canvas CollecƟon of Pascale M. Thomas and Tayo E. Famakinwa, courtesy of Roberts Projects, Los Angeles, California © Courtesy of the arƟst and Roberts Projects, Los Angeles, California; Photo Robert Wedemeyer

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

Thenjiwe Niki Nkosi (b.1980, New York City, USA) Ceremony 2020 Oil on canvas Courtesy of Homestead CollecƟon © Thenjiwe Niki Nkosi. Courtesy of Stevenson, Amsterdam/Cape Town/Johannesburg. Photo Nina Lieska

Bozar When We SeeUs Credit: Julie Pollet

Zandile Tshabalala (b.1999, Soweto, South Africa)Two Reclining Women 2020 Acrylic on canvas Courtesy of the Maduna CollecƟon © Zandile Tshabalala Studio

Bozar When We See Us Credit: Julie Pollet

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

BOZAR, When We See Us Photo credit: We Document Art

Koyo KOUOH, portrait. Courtesy of Zeitz MOCAA