Con “Northern Lights” la Fondazione Beyeler riunisce per la prima volta gli avventurosi (e sconosciuti) paesaggisti dell’estremo nord

Harald Sohlberg Country Road II, 1916 Oil on canvas, 103 x 138 cm Canica Art Collection, Oslo Photo: Øystein Thorvaldsen

Era il 1910 e Anna (Scholander) Boberg, con una spessa cuffia che le copriva le orecchie, un paio di stivali imbottiti e una pelliccia scura, in barba alla moda, guardava fiera l’orizzonte. Tuttavia quel portamento, assunto un po’ per posa di fronte alla macchina fotografica e un po’ per bilanciare il peso del cavalletto portatile che sfoggiava fissato alla cintura, a lei che avrebbe passato la vita a dipingere i paesaggi innevati della Norvegia settentrionale (a nord del Circolo Polare Artico), si addiceva parecchio.

Quel temperamento indomito e avventuroso la pittrice svedese lo condivideva con la maggior parte degli artisti la cui opera si può ora ammirare nella mostra “Northern Lights” (“Luci del Nord”). Inaugurata domenica alla Fondazione Beyeler di Riehen (appena fuori Basilea, in Svizzera). L’esposizione è una raccolta di settanta paesaggi dipinti tra il 1888 e il 1930 alle latitudini più estreme, da autori norvegesi, finlandesi, canadesi, russi e svedesi per celebrare la bellezza della natura nordica.

Anna Boberg, Northern Lights. Study from North Norway, n.d. Oil on canvas, 97 x 75 cm Nationalmuseum, Stockholm, bequest 1946 Ferdinand and Anna Boberg Photo: Anna Danielsson/Nationalmuseum

Fatta eccezione per Edvard Munch e per Hilma af Klint, sono tutti autori semisconosciuti al di fuori del loro paese d’origine. Ma non per questo i loro dipinti sono meno emozionanti. Anzi.

Ci sono: la finlandese Helmi Biese (vissuta dal 1867 al 1933), il principe Eugenio di Svezia duca di Närke (1865 – 1947), lo svedese Gustaf Fjaestad (1868 – 1948), il finlandese Akseli Gallen-Kallela (1865 – 1931), la canadese Emily Carr (1871 – 1945), il canadese Lawren Harris (1885 – 1970), l’anglo- canadese J. E. H. MacDonald (1873–1932), il russo Ivan Šiškin (1832 –1898), il norvegese Harald Sohlberg (1869 – 1935) e il canadese Tom Thomson (1877–1917). Oltre alla già nominata Anna (Scholander) Boberg (svedese,  1864 –1935).

La Fondazione Beyeler a proposito di “Northern Lights” ha scritto: “Sebbene molti di questi artisti e siano celebrati in patria alla stregua di eroi ed eroine nazionali, per la maggior parte dei visitatori alle nostre latitudini essi potrebbero rappresentare un’avvincente scoperta. È infatti la prima volta che in Europa si dedica una mostra a questo tema.”

Helmi Biese, View from Pyynikki Ridge, 1900 Oil on canvas, 91 x 115 cm Finnish National Gallery, Ateneum Art Museum, Hoving Collection Photo: Finnish National Gallery / Aleks Talve

La foresta boreale selvaggia e incontaminata, i vasti tratti di costa pullulanti di vita ma privi di presenze umane, i cumuli di neve e ghiaccio, il foliage dell’autunno nei boschi, l’acqua dei ruscelli, dei laghi o del mare, ma soprattutto la luce del nord, animano le loro tele di suggestioni comuni malgrado i loro stili siano molto diversi.

La mostra, infatti, prende in considerazione un lasso temporale piuttosto vasto, che nell’Europa centrale corrisponde alla nascita di numerose avanguardie. Molti degli artisti presentati alla Fondazione Beyeler avevano trascorso un periodo a Parigi e i loro paesaggi, nello stile e nei colori, hanno subito l’influsso quando di un movimento quando dell’altro. E in questo senso “Northern Lights” nasconde una ricchezza di declinazioni caleidoscopica.

Il museo ha spiegato: “Artisti influenti delle avanguardie novecentesche quali Vincent van Gogh, Claude Monet, Paul Cézanne e Henri Matisse incisero anche sulla moderna pittura di paesaggio nordica aprendo nuove prospettive su colore, luce e forma. Nel fare proprie queste idee i pittori e le pittrici del nord le interpretarono in maniera personale e inconfondibile dando così vita a un’avanguardia specificatamente nordica che non va considerata uno stile, bensì un approccio etico volto a celebrare l'indomita natura del nord in tutta la sua maestosità e bellezza”.

Gustaf Fjæstad, Winter Moonlight, 1895 Oil on canvas, 100 x 124 cm Nationalmuseum, Stockholm Photo: Hans Thorwid/Nationalmuseum

Si spazia dall’approccio classico, per quanto fresco e personale, di Biese, a quello altrettanto classico pur se ricercato e colto del principe Eugenio, al simbolismo di Gallen-Kallela, fino al neoromanticismo avanguardistico, misterioso e vagamente surreale di Sohlberg (in Norvegia è considerato secondo solo a Munch); passando per i paesaggi cesellati, decorativi e scenografici di Fjæstad e per la ricerca fuori dagli schemi di Boberg (lei, che si dedicava anche ai tessuti, tra le altre cose dipingeva su tela grezza prediligendo formati verticali e chiamava le sue opere “arazzi” perché il risultato ricordava gli arazzi intrecciati). Alcuni di loro, poi, come af Klint, dalla pittura di paesaggio si sarebbero spinti fino all’astrazione (è il caso di Carr e Harris), e prima del cambiamento avrebbero reso la natura sempre più stilizzata e irreale.

Esclusi i più famosi di loro però, questi artisti intraprendono un percorso che si discosta dalla ricerca, dalle preoccupazioni e dagli obbiettivi delle avanguardie europee.

La Fondazione Beyeler in proposito ha scritto: “Il periodo preso in esame non riguarda esclusivamente la storia culturale delle avanguardie di primo Novecento e la relativa, sistematica messa in discussione della tradizione. Da un punto di vista geopolitico a quell’epoca andavano formandosi al nord nuovi stati alla cui nascita contribuì la febbrile lotta per la conquista di una loro identità nazionale. Artiste e artisti misero in scena la loro patria e i suoi spazi naturali come simboli dell’identità nazionale e della sua eredità culturale. I soggetti desunti dalla natura, già di per sé impressionanti, assurgevano a emblemi dell’anima della nazione e dei legami con la propria cultura contribuendo in misura decisiva a plasmare l’identità della patria. In tutti questi paesi il sorgere dell’avanguardia nordica era strettamente collegato alla politica che mirava a costruire un’identità nazionale”.

Tom Thomson, Northern Lights, 1916 or 1917 Oil on wood, 21.5 x 26.7 cm National Gallery of Canada, Ottawa, bequest of Dr. J. M. MacCallum, Toronto, 1944 Photo: NGC

La maggior parte di questi artisti ci regalano anche delle pagine di vita decisamente suggestive, ognuna delle quali si intuisce dai dipinti. E’ il caso di Carr che era solita intraprendere lunghi viaggi per ammirare gli insediamenti dei nativi americani, o di Thomson, spirito libero, eccellente nuotatore e pescatore, che si spingeva nel cuore della natura selvaggia dell’Ontario per fare schizzi su schizzi che avrebbe poi completato in studio durante la stagione fredda (Thomson sarebbe morto a soli 39 anni durante un’uscita in canoa, confermando anche nelle tragedia il suo carattere indomito).

Il Gruppo dei Sette (il primo movimento artistico canadese), invece, si concedeva spedizioni più comode nelle aree remote del Paese: avevano trasformato uno scompartimento ferroviario in uno studio viaggiante (sia Carr che Thomson sono in qualche modo legati al Gruppo dei Sette ma non ne sono considerati parte). Per non parlare di Boring che andava molto spesso a dipingere alle isole Lofoten, preferendo l’inverno all’estate

Northern Lights”, curata da Ulf Küster (Senior Curator della Fondation Beyeler) in stretta cooperazione con Helga Christoffersen, (Curator-at-Large e Curator of the Nordic Art & Culture Initiative, Buffalo AKG Art Museum), rimarrà alla Beyeler Foundation di Riehen (Basilea) fino al 25 maggio 2025.

E’ stata organizzata in collaborazione con il Buffalo AKG Art Museum di Buffalo (New York) e per sottolinearne l’importanza la Fondazione Beyeler ha commissionato all’artista contemporaneo danese Jakob Kudsk Steensen la realizzazione di un’installazione a tema. L’opera si chiama “Boreal Dreeams” e consiste in paesaggi virtuali creati da Steensen basandosi su dati scientifici raccolti sul campo e sulla tecnologia del gaming

Harald Sohlberg A House by the Coast (Fisherman’s Cottage), 1906 Oil on canvas, 109 x 94 cm The Art Institute of Chicago, gift of Edward Byron Smith Photo: bpk/The Art Institute of Chicago/Art Resource, NY

Prinz Eugen Orlången Lake, Balingsta 1891 Oil on canvas, 90 x 81 cm Prins Eugens Waldemarsudde, Stockholm Photo: Lars Engelhardt / Prins Eugens Waldemarsudde

Emily Carr, Abstract Tree Forms, 1931/32 Oil on paper, 61.1 x 91.1 cm Collection of the Vancouver Art Gallery, Emily Carr Trust Photo: Vancouver Art Gallery

Hilma af Klint, Sunrise, Preworks for Group III, 1907 Oil on canvas, 95 x 60 cm HaK 37 By courtesy of the Hilma af Klint Foundation

Akseli Gallen-Kallela The Lair of the Lynx (Lokulan), 1908 Oil on canvas, 100 x 80 cm Courtesy of the Faurschou Collection

Akseli Gallen-Kallela  Springnight, 1914 Oil on canvas, 115,5 x 115,6 cm Lillehammer Art Museum, deposited by The Savings Bank Foundation DNB  Foto: Camilla Damgård

Akseli Gallen-Kallela Snowy Cliffs at Kalela, 1901 Oil on canvas, 81 x 55 cm Private Collection Photo: HAM / Hanna Kukorelli

Lawren S. Harris, Lake Superior, ca. 1923 Oil on canvas, 111.8 x 126.9 cm The Thomson Collection at the Art Gallery of Ontario  © Family of Lawren S. Harrism Photo: AGO

Edvard Munch Starry Night, 1922–1924 Oil on canvas,140 x 119 cm Munchmuseet, Oslo Photo: Munchmuseet / Halvor Bjørngård

Iwan Shishkin, Wind Fallen Trees, 1888 Charcoal on canvas, 138 x 201 cm Finnish National Gallery, Ateneum Art Museum Photo: Finnish National Gallery/Hannu Pakarinen

Edvard Munch The Yellow Log, 1912  Oil on canvas, 129,5 x 159,5 cm Munchmuseet, Oslo Photo: Munchmuseet

Tra cumuli di neve e colori fluo “Snow Pallet 18” di Toshihiko Shibuya racconta come il grande inverno di Hokkaido sia sempre meno grande

Toshihiko Shibuya, Snow Pallet 18, 2024-25. All images Courtesy Toshihiko Shibuya ©Toshihiko Shibuya

Nel momento in cui viene redatto quest’articolo, a Sapporo, nel Giappone settentrionale, il sole si alterna alle nevicate. Sarà così anche nei prossimi giorni. E fintanto che la neve cadrà, si accumulerà, ghiaccerà o si scioglierà, le due installazioni che compongono “Snow Pallet 18” di Toshihiko Shibuya continueranno a cambiare aspetto; sia nella forma che nel colore.

E’ normale che nevichi anche nelle belle giornate, durante l’inverno sull’isola di Hokkaido, quando le temperature sono basse e il vento siberiano spinge i turisti a cercare riparo mentre trasforma le precipitazioni in spettacoli senza eguali; con minuscoli fiocchi di neve che danzano nell’aria come innumerevoli piccole lucciole prima di ammucchiarsi in una spessa coltre bianca. D’altra parte tutta la zona è uno ‘yuki-guni’, cioè un ‘paese della neve’, in cui l’architettura, l’economia e la vita di tutti i giorni sono influenzate dai rigori invernali (una caratteristica dell’isola in particolare che ha fortemente influenzato l’opera del signor Shibuya, come ha spiegato lui stesso in una recente intervista ad Artbooms). Dove si rinforzano gli alberi con canne di bambù e corde affinché sopportino il peso dei fiocchi (‘yukitsuri’), dov’è comune la pratica dello ‘yukimi’ (cioè ’guardare la neve’), e dove lo Snow Festival è uno degli eventi più popolari da decine d’anni a questa parte.

Eppure, anche lì, il clima sta cambiando. Lo sa bene Toshihiko Shibuya che da oltre dieci anni a questa parte, ogni inverno, mette in scena una diversa versione dell’installazione “Snow Pallet”. L’opera, caratterizzata dalle forme minimali e dai colori vivi che la neve rifrange e amplifica, è diventata nel tempo un diario scultoreo (e fotografico) delle nevicate all’estremo nord dell’arcipelago nipponico: “Utilizzando Snow Pallet- spiega - mostro i ricordi dei paesaggi passati insieme alle date degli eventi meteorologici”.

Paesaggi, che secondo il signor Shibuya, starebbero perdendo parte del loro fascino: “Lo scrittore tedesco Goethe, che era anche uno scienziato naturalista, scrisse nel suo libro ‘Teoria dei colori’: ‘Tutti i colori intensi esistono nel cielo nuvoloso, che si trova tra la luce e l'oscurità. Con l'alba, appare il giallo, seguito dall'arancione, dal rosso e da altri colori vivaci, e quando il sole tramonta la sera, appare il blu. Il blu esiste proprio accanto all'oscurità’. Questo fenomeno può essere rappresentato osservando Snow Pallet. Ho iniziato il progetto nel 2011. Da allora le nevicate sono diminuite di anno in anno. Ultimamente ne abbiamo spesso di irregolari, che variano da forti a niente neve nel giro di un breve lasso di tempo”.

Quello che invece non è cambiato è lo spirito del progetto, teso a sottolineare la bellezza transitoria del paesaggio, la sua fragilità e mutevolezza, senza tradire le composizioni create dal caso. Per raggiungere questo risultato, il signor Shibuya utilizza dei supporti industriali di metallo dalle forme semplici, pensati come superfici d’appoggio per la neve. Tinti di bianco per mimetizzarsi nei paesaggi invernali, nascondendo però colori intensi, spesso fluorescenti, nei piani ciechi. In genere somigliano a dei tavolini, ma non quest’anno.

Composta da due installazioni realizzate dal signor Shibuya in altrettante differenti locations, “Snow Pallet 18” infatti, sembra ribaltare il solito paradigma: in un’opera i supporti sono triangoli rovesciati che compaiono per la prima volta; nell’altra i piccoli piani orizzontali sono retti da gambe lunghe come trampoli e i colori non sono più nascosti ma laccati direttamente nell’area su cui cadrà la neve.

La scultura formata dal succedersi di triangoli capovolti è stata posizionata di fronte ad un ingresso del campus Muruyama dell’Università Hokusho. L’altra, è invece collocata sulla terrazza panoramica della caffetteria giapponese Nichigetsu, così da dialogare con il cielo e lo skyline della città ma soprattutto con la TV Tower (alta oltre 143 metri, la torre costruita nel ’57 dall’architetto Tachū Naitō, è un’attrazione turistica). Entrambe le opere sono state realizzate a Sapporo.

Come già in altre occasioni il confronto serrato con l’architettura, a tratti avveniristica, della città, ha condizionato il lavoro, che riecheggia di motivi ricorrenti ed elementi portanti dell’ambientazione urbana. All’ingresso del campus, ad esempio, i triangoli rovesciati sono fissati a strutture fatte di listelli che risuonano delle linee chiare e scure di finestre e pareti, strade e rami. Senza contare che la parte superiore dei triangoli somiglia parecchio proprio all’atrio sotto cui le sculture sono posizionate. Qui la neve, complice il vento della zona, si ferma in angoli inaspettati dei ‘pallet’ e, di momento in momento, riverbera i colori in maniera nuova.

Sulla terrazza panoramica invece, il signor Shibuya, attraverso gli elementi verticali delle sculture evoca canneti o vegetazione fluviale in genere, ma anche grattacieli. Mentre i piccoli piani verticali vicini tra loro, permettono al vento e al sole di giocare con la neve, facendole assumere forme bizzarre in costante mutamento, in cui, di attimo in attimo, tutti possono vedere cose diverse. Come fossero macchie di rothschild o nuvole passeggere.

Ad esempio, il proprietario della caffetteria Nichigetsu ha affermato: "Sono felice che le montagne innevate raffigurate su questi oggetti assomiglino al monte Fuji. Questo perché ogni anno raccolgo il tè a Shizuoka (città e prefettura del Giappone centro-meridionale n.d.r.), da dove posso vedere il monte Fuji."

Ciò svela l’aspetto psicologico della serie “Snow Pallet”, che ha ruoli rigidamente attribuiti: la natura regala il proprio spettacolo, l’artista lo mette in evidenza, l’osservatore lo interpreta sulla base della ragione, dell’esperienza e del suo stato d’animo. Così oltre a considerazioni generali, le opere spingono lo spettatore in un territorio squisitamente personale (la nostalgia, i ricordi dell’infanzia e di tutti quei momenti che un evento occasionale anche se ricorrente portano con se).

L’artista ha invece spiegato (riferendosi alle sculture sulla terrazza panoramica): “A differenza del solito Snow Pallet questi oggetti alti hanno un rivestimento fluorescente sulla superficie superiore. Se la neve si accumulasse semplicemente, i colori vividi non sarebbero visibili. Con il rapido aumento della temperatura, la neve si scioglie e si trasforma in una fanghiglia. La luce del sole penetra attraverso le piccole montagne innevate trasformate in ghiaccio, permettendoci di vedere la luce vivida che le attraversa”.

Ha poi aggiunto: “La mia arte è resa possibile dal cambiamento climatico, con forti nevicate e temperature in aumento. Questo è piuttosto ironico. Le persone che vedranno le meravigliose masse di neve che cambiano colore sull'oggetto saranno ispirate a riflettere sul problema del cambiamento climatico?

Snow Pallet 18” di Toshihiko Shibuya sarà all’ingresso del campus Muruyama (Università Hokusho di Sapporo) fino al 4 febbraio 2025, mentre sulla terrazza panoramica vicino alla Sapporo TV Tower l’installazione rimarrà fino a primavera.

Il Van Gogh scomparso da trent'anni sarebbe di proprietà di una famiglia italiana

“Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh (particolare). foto tramite Staedel Museum

L’ultima volta in cui “Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh apparve in pubblico fu nella sede newyorkese di Christie's. Era il 1990 e il dipinto, di cui esiste una sola copia (molto meno apprezzata dell’originale) conservata al Musée d’Orsay di Parigi, diventò un record d’asta. Se lo aggiudicò un magnate giapponese della carta per 82 milioni e mezzo di dollari (oggi gli esperti sostengono che ne valga 300). Da allora, fatta eccezione per i proprietari (ammesso che non lo tengano in un deposito climatizzato), nessuno l’ha più visto. Anzi da qualche decennio nessuno sa proprio dove sia. Un inchiesta comparsa ieri su New York Times però sembra aver diradato la nebbia che avvolge il mistero de “Il ritratto del dottor Gachet”.

Da quanto è emerso, infatti, il dipinto sarebbe a Lugano e dovrebbe appartenere ad una famiglia italiana. Voci insistenti, già pubblicate in altri approfondimenti sull’argomento, parlano di un nome famoso nel settore agroalimentare. Qualcuno aveva chiamato in causa Barilla, ma secondo gli isider contattati dal un gruppo di giornalisti del quotidiano statunitense, non di pasta ma di formaggio si tratterebbe.

Van Gogh dipinse l’opera a Auvers-sur-Oise nel giardino del medico con cui il fratello Theò aveva stretto amicizia e che aveva accettato di posare per lui dal vivo. Era il 1890, poche settimane dopo, l’artista si sarebbe suicidato. Paul Gachet era uno psichiata dalle molte passioni (l’omeopatia e la lettura dei tarocchi oltre alla pittura) e il suo ritratto è un primo esempio di rilettura moderna di un genere classico delle arti visive. Sarà lo stesso Vincent a descrivere così l’aria pensosa e malinconica di Gachet nel quadro: "espressione disillusa del nostro tempo".

Secondo la versione della storia più accreditata, fu proprio Gachet a volere che Van Gogh gli facesse una copia del ritratto (attualmente conservato al Musée d’Orsay di Parigi), ma non molto tempo fa alcuni critici "pur con fondamenti debolissimi" (ha scritto Wikipedia) ne hanno messo in dubbio l’autenticità.

A vendere per prima “Il ritratto del dottor Gachet” fu la vedova del fratello dell’artista, Johanna van Gogh-Bonger, nel 1897. Sembra che la transazione le sia fruttata 300 franchi (circa 54 euro). Ad ogni modo, il valore delle opere di Van Gogh aumentò in fretta e il dipinto passò di mano in mano velocemente, finchè non arrivò nella collezione del Städelsches Kunstinstitut di Francoforte nel 1911 (il museo tedesco è rimasto molto legato al dipinto al punto da redarre una pagina internet e costruire un podcast nel tentativo di ritrovarlo) e alcuni decenni dopo non venne confiscato dai nazisti come esempio di ‘arte degenerata’. Qui c’è un colpo di scena però, perchè l’opera viene venduta in segreto da un gallerista tedesco al banchiere olandese Franz Koenigs (i cui eredi sostengono che il nonno si sia separato dal dipinto solo per metterlo temporaneamente al sicuro), che lo cede all’amico e collega ebreo Siegfried Kramarsky in fuga verso New York.

Il signor Kramarsky, di quando in quando (ma soprattutto se partiva per le vacanze), lo lasciava in in prestito al Metropolitan Museum of Modern Art e alla sua morte l'opera è stata custodita dal museo fino a quando i proprietari non l’hanno messa all'asta da Christie's.

Il collezionista Ryoei Saito ce vince l’asta, però, aveva già qualche problema prima dell’acquisto multimilionario del dipinto e se ne libera relativamente in fretta. Di lì de “Il ritratto del dottor Gachet” si perdono le tracce, finchè la giornalista di Wall Street Journal,  Lee Rosenbaum, non individua nel gestore di fondi d’investimento di origine austriaca, Wolfgang Flöttl, il nuovo proprietario. Anche Flöttl a sua volta si rende conto di non potersi permettere di mantenere il ritratto. E lo vende, ma a “a chi?” o “dove?” sono rimaste a lungo domande senza risposta.

Adesso New York Times sembra individuare con un margine piuttosto alto di fondamento in Lugano il luogo in cui “Il ritratto del dottor Gachet” è conservato. Anche le voci che lo vedono in mani italiane sembrano piuttosto numerose ed accreditate. L’inchiesta azzarda anche l’ipotesi che il dipinto sia stato comperato da Antonio Invernizzi alla fine degli anni ‘90 e che tutt’ora sia nella collezione (pare piuttosto ampia) della famiglia la cui fortuna è legata all’industria casearia, ma senza sbilanciarsi troppo. Gli Invernizzi, contattati dal quotidiano statunitense, nella maestosa Villa Favorita a Lugano (residenza seicentesca affacciata direttamente sul lago, un tempo di proprietà del barone Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza), si sono rifiutati di commentare in qualsiasi modo la notizia e attraverso il loro avvocato si sono opposti alla possibilità di parlare dell’argomento. Non hanno ne confermato ne smentito. Lo stesso articolo, del resto, è molto aperto all’ipotesi che quella degli Invernizzi sia una falsa pista.

Sia come sia, la storia de’ “Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh pone domande molto concrete sulla liceità della proprietà privata senza nessun tipo di restrizioni di opere d’arte che costituiscono il patrimonio di tutti noi (soprattutto sapendo che i musei non si potrebbero mai permettere di acquistarle). Da una parte, imporre a chi le compra di esporle ogni tanto in un museo per esempio, violerebbe la libertà dei legittimi proprietari e metterebbe in difficoltà un mondo che si sostine sul mercato. Dall’altra, il pubblico in genere e gli studiosi in particolare perdono tanto nel non poterle ammirare mai.

E poi c’è l’affermazione del signor Saito. L’ultimo proprietario del ritratto di Vincent Van Gogh ad essersi aggiudicato l’opera in un’asta infatti, una volta disse che un giorno avrebbe voluto essere cremato insieme alle cose che gli erano più care. Incluso il dipinto.

“Il ritratto del dottor Gachet” di Vincent Van Gogh , olio su tela 67 cm x 56 cm . Collezione privata