Vera Molnar, la donna che ha anticipato di oltre 50 anni l'uso dell'intelligenza artificiale nell'arte

Vera MOLNAR (1924-2023) Hypertransformation /Diptyque I-II/ (Hypertransformation /Diptych I-II/) 1974-1979 canvas, vinyl 147 × 150 cm; 147,5 × 150 cm courtesy of the Hungarian Museum of Fine Arts – Hungarian National Gallery

Pioniere dell’arte generativa e della computer-art, Vera Molnar, morta a Parigi il 7 dicembre scorso avrebbe compiuto 100 anni nemmeno un mese dopo (il 5 gennaio 2024). Malgrado a Molnar interessasse poco o niente delle questioni socio-politiche e degli interrogativi fantascientifico- filosofici di cui siamo abituati a sentir parlare in merito all’intelligenza artificiale, il suo lavoro anticipa largamente l’uso dell’IA nel campo delle arti visive. Molnar, infatti, si è servita di un computer per fare arte dal 1968 (per riuscirci ha dovuto imparare a programmare), ma già prima utilizzava delle “macchine immaginarie” (cioè semplici algoritmi che guidavano il posizionamento manuale di linee e forme sulla carta a quadretti). Questa spinta all’innovazione non l’avrebbe mai abbandonata: nel 2022, quando ha ideato il suo primo NFT aveva 98 anni.

Eppure diceva spesso: “La cosa che più mi piace è vedere una matita correre su un foglio di carta e seguirla. Di tanto in tanto puoi fermarti e cancellarla”.

A febbraio due importanti mostre celebreranno la sua arte: “A’ La Recherche de Vera Molnar” nella sede di Budapest del Ludwing Museum e “Speaking to the eye” al Centre Pompidou di Parigi.

Vera MOLNAR (1924-2023) Lent Mouvement Giratoire (Slow Circular Motion), 1957-2013 acrylic on canvas 80 x 80 cm courtesy of MNB Arts and Culture

Le sedi delle esposizioni non sono casuali ma frutto della biografia dell’artista, che, nata in Ungheria da una famiglia benestante, si trasferisce a Parigi nel’47 (dopo aver trascorso sei mesi a Roma per una borsa di studio). Non se ne sarebbe mai andata.

D’altra parte l’idea di abbandonare il suo paese natale ce l’aveva da parecchio: “Ricordo- ha detto in un’intervista alla Brown University- che una mattina, quando avevo 16 anni, dissi: ‘Mamma, ci sono alcune cose che voglio dirti: primo, non voglio suonare il piano, voglio dipingere. Non voglio andare in chiesa. Non voglio indossare gli occhiali. E infine… voglio rifarmi la vita in Francia’. La mia povera madre, è stata colpita tutto in una volta. Ma era una donna intelligente. Mi ha detto: ‘Va bene, c'è una cosa che non è negoziabile, sono gli occhiali. Hai una brutta miopia e verrai schiacciata da un'auto. Del resto parleremo al tuo ritorno da scuola. Ora mettiti gli occhiali’.” E poi Parigi non sarebbe stata avara con lei: lì conoscerà artisti che sarebbero stati centrali per la sua formazione, come Michel Seuphor , Félix del Marle , Georges Vantongerloo , Constantino Brancusi , Auguste Herbin , Étienne Hadju e soprattutto Sonia Delaunay (da cui avrebbe ricevuto dei preziosi incoraggiamenti); sempre nella capitale francese sarà l’unica co-fondatrice donna tra gli esponenti del GRAV (Group de Recherche d’Art Visuel), tra il 1961 e il 1968.

Vera MOLNAR (1924-2023) Electra, 1983 ink on paper 29,5 x 42 cm courtesy of MNB Arts and Culture

In Ungheria, invece, si era laureata in estetica e storia dell’Arte presso l’Università Ungherese di Belle Arti, e aveva incontrato il marito François Molnàr (psicologo e ricercatore, per un periodo era stato artista a sua volta e occasionalmente aveva collaborato con la moglie), di cui aveva scelto di usare il cognome quando faceva arte. Lei però si chiamava Vera Gacs e aveva deciso di dipingere già da bambina, mentre guardava un suo zio, pittore a tempo perso. In seguito avrebbe detto, che però, la sua vera epifania, sarebbe arrivata solo con la scoperta del Cubismo (Picasso rimarrà un suo idolo e il Mont Saint-Victoire di Cézanne comparirà in intere serie di sue opere).

Vera MOLNAR (1924-2023) Un Carré Round (Squaring the Circle) 1962-1964 oil on canvas 110 x 110 cm courtesy of MNB Arts and Culture

Malgrado Molnar fosse affascinata dalle forme create dall’uomo e si servisse di un computer per lavorare, la sua opera è molto varia e visivamente piacevole. Usava per lo più colori primari.

Al centro della sua ricerca il tentativo di razionalizzare il caos, destrutturarlo, aumentarlo gradualmente in un ambiente controllato (come se i lavori fossero esperimenti veri e propri), trovare il perfetto equilibrio tra ordine e disordine. Questo dà alla sua opera una forte valenza simbolica (il caos rappresenta la vita, il fato, i sentimenti, mentre le forme o l’ordine delle linee a cui viene applicato sono il cerebrale, l’idea, l’ideale ecc.). Non a caso Molnar amava molto anche le trasformazioni e cercava di individuare il preciso momento in cui accadevano (per esempio, quello in cui un rettangolo diventa un trapezio, o un quadrato un rettangolo). Il suo lavoro però, a momenti, lascia filtrare anche scampoli della vita, delle passioni e dei sentimenti di Vera. E’ il caso di “Lettres à ma mère” (1981-1990) in cui l’artista rievoca attraverso i disegni del computer le forme della calligrafia della madre e il loro variare nel corso degli anni (il non detto, la forza dei legami a prescindere dalle parole, l’effetto dello scorrere del tempo sulle persone, sono tutti argomenti che quest’opera tratta).

In genere, ad ogni modo, il lavoro di Vera Molnar non è affatto freddo ma anzi in qualche modo profondamente poetico, perché ha (anche) a che fare con le parole non pronunciate, le stravaganze, e con quella parte dell’esperienza che non si tramuta in memoria consapevole.

Vera MOLNAR (1924-2023) Electra, 1983 ink on paper 29,5 x 42 cm courtesy of MNB Arts and Culture

La sua opera fin dall’inizio si situa nel solco dell’arte concreta e affonda le radici nel vivace ambiente artistico parigino di quegli anni (lo aveva ricordato lo scomparso maestro dell’Op Art Carlos Cruz-Diez, di origini venezuelano ma a sua volta parigino per scelta). Mentre l’impegno pionieristico nell’arte generativa non solo è straordinario ma ai tempi venne accolto con non poco scetticismo. Infatti, quando nel ’68 Molnar si è presentata al capo del laboratorio informatico da cui avrebbe ottenuto l’accesso al suo primo computer, dicendogli che intendeva usarlo per fare arte, l’uomo (ha ricordato più volte l’artista): “Mi ha dato un’occhiata e ho avuto la sensazione che stesse valutando se chiamare un’infermiera per sedarmi o rinchiudermi”.

Va infine detto che ai tempi usare un computer era tutt’altro che semplice: era necessario imparare i primi linguaggi informatici come Fortran e Basic e inserire i dati nella macchina con schede perforate. Nonostante ciò Molnar ha affermato: “Il grande giorno della mia vita è stato quando abbiamo ricevuto un computer a casa. Ci siamo addormentati la notte al rumore del tavolo del plotter, qualcuno lavora al tuo posto, uno schiavo che non è iscritto al sindacato, che non vuole andare in vacanza e che fa tutto quello che gli chiedo!

A’ La Recherche de Vera Molnar” nella sede di Budapest del Ludwing Museum curata da Richard Castelli  e Zsófia Máté, si inaugurerà il 10 febbraio (fino al 14 aprile 2024). La mostra sarà la prima di un tour internazionale di esposizioni dedicate ai più influenti pionieri della computer-art dal polo museale tedesco. “Speaking to the eye” al Centre Pompidou di Parigi si terrà, invece, dal 28 febbraio al 26 agosto 2024

Vera MOLNAR (1924-2023) Hypertransformation /Diptyque I-II/ (Hypertransformation /Diptych I-II/) 1974-1979 canvas, vinyl 147 × 150 cm; 147,5 × 150 cm courtesy of the Hungarian Museum of Fine Arts – Hungarian National Gallery

Vera MOLNAR (1924-2023) Portrait © Horváth László

Ludwig Museum Budapest Outside view Photo: Balázs GLÓDI © Ludwig Museum – Museum of Contemporary Art

Chiara Camoni "una delle artiste più importanti della sua generazione" al Pirelli Hangar Bicocca

Chiara Camoni, Sister (Capanna), 2022 (particolare) Ferro, terracotta nera, fiori freschi e fiori secchi 220 x 140 x 150 cm Courtesy l’artista Nicoletta Fiorucci Collection Foto Camilla Maria Santini

Laboriose sculture in porcellana, tessuti tinti con piante o bacche raccolte qua e là, fiori veri, elementi architettonici che richiamano un sito archeologico e oggetti trovati, sono solo alcuni dei pianeti che convivono nell’universo artistico di Chiara Camoni. Un mondo insieme fiabesco e poetico, bizzarro e misterioso, dove gli elementi di critica sociale si diluiscono in un’atmosfera magica e giocosa, che, dal 15 febbraio sarà protagonista della mostra “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse” (e con un titolo così) al Pirelli Hangar Bicocca di Milano.

Nata nel ’74 a Piacenza, Camoni ha alle spalle un lavoro costante e ininterrotto, senza corsie agevolate o drastici colpi di fortuna, che nel tempo (si laurea all’Accademia di Brera nel ‘99 e inizia subito a dedicarsi all’arte a tempo pieno) si è evoluto, fino a diventare stratificato e complesso, capace di racchiudere al suo interno riflessioni e suggestioni multiformi. E i risultati hanno cominciato ad arrivare. Tanto che Pirellli Hangar Bicocca sul suo sito la definisce “una delle artiste italiane di maggior rilievo della sua generazione”.

Camoni, che adesso abita in provincia di Lucca con la famiglia (a Serravezza, un paese di 12mila abitanti sull’Appennino, non lontano dalle cave di marmo), usa vari medium espressivi (scultura, disegno, video); ha una particolare predilezione per la ceramica e spesso ottiene o modifica i colori delle opere attraverso elementi naturali (fiori, piante e bacche appunto, ma anche diversi tipi di argilla e ceneri). A volte non lavora da sola ma organizza delle riunioni con altri (parenti o amici ma non solo) chiamati a svolgere un particolare compito. D’altra parte, la dimensione rituale che si crea durante questi eventi e le diverse sfumature psicologiche che confluiscono nelle opere plasmandole in maniera impercettibile, sono aspetti che si ritrovano in tutta la sua pratica. E poi i raduni aiutano a ricordare.

Alla memoria, infatti, fanno riferimento sia le citazioni di antiche civiltà che si ritrovano disseminate nelle sue sculture, sia fiabe e racconti vari, da lei evocati. Come pure gli oggetti trovati che inserisce nelle sue opere, che possono essere industriali, o, più spesso, naturali (ad esempio foglie secche o ossicini).

Anche il titolo della mostra sembra una filastrocca o una formula magica (magari più da strega della Disney che da vera e propria occultista), ma declinata al femminile. Ed è anche una maniera ironica e faceta di evocare il femminismo. Del resto, Camoni rivendica con decisione il diritto di fare arte con strumenti tradizionalmente più usati dalle donne (fino a pochi anni fa relegati dalla critica nel campo di serie b delle arti applicate), di citare artiste e scrittrici donne ma soprattutto di risolvere l’opera con una sensibilità e un gusto del tutto femminili. Lei a tal proposito ha detto:

Come artista donna, la mia identità nasce in modo archeologico, in un tempo e uno spazio lontano, dove torno sempre per poi trovare la mia collocazione nel presente. Così hanno origine le opere, che hanno una loro vita autonoma, muovendosi nel tempo e nello spazio che viene dopo, quello futuro. Comincia quella dualità che le rende mutevoli, ambigue, dedite al cambiamento”.

L’opera, in generale, è una rivisitazione del tema del paesaggio, anche se a volte si sovrappone e si intreccia alla natura morta e, persino al ritratto (non prima però di aver fatto un viaggio a ritroso nella storia dell’arte verso volti e forme archetipiche). Tutto è molto tattile. Non a caso l’artista utilizza quasi esclusivamente l’artigianato nella sua pratica: disegna, modella l’argilla, tinge i tessuti ecc. Il contatto diretto con la materia, talvolta ripetitivo, diventa una forma di meditazione e una maniera per far emergere l’inconscio. Oltre a un modo per portare alla luce legami, citazioni e inaspettate assonanze, con altre civiltà, talvolta lontane nel tempo altre nello spazio. Mentre le forme organiche insieme alla cangiante bellezza della natura, dominano la composizione.

Questi aspetti daranno forma anche all’allestimento della mostra al Pirelli Hangar Bicocca, che, ispirato al giardino all’italiana tardo-rinascimentale e agli antichi anfiteatri, si svilupperà come un percorso: “Il disegno- spiega il comunicato del museo milanese- simmetrico e radiale della pianta crea corridoi e stanze, strade e ambienti, che dividono lo spazio dello Shed in aree dove i visitatori possono sostare o dialogare. Il centro vuoto è il fulcro attorno a cui ruota il progetto di mostra: le opere sono infatti disposte come sugli spalti di un’arena, trasformando l’esposizione in un raduno o uno spettacolo”.

Per lasciare che l’ambiente (i giochi della luce, le ombre serali, il particolato, la brezza) faccia la sua parte, esaltando il ciclo naturale e la mutevolezza del paesaggio, le finestre dello spazio espositivo rimarranno aperte (quest’ultimo è stato uno stabilimento industriale, dove all’inizio del secolo scorso si costruivano e assemblavano locomotive).

Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse” (a cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli) al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, aprirà in abbinata alla mostra di James Lee Byars (la sede è molto grande e ospita sempre due esposizioni contemporaneamente), per poi sposarsi a quella del giamaicano Nari Ward (dal 28 marzo; quella di lei si concluderà però sette giorni prima di quella di Ward: il 21 luglio). Raccoglierà il numero più ampio di opere di Chiara Camoni mai presentato in Italia, insieme ad una serie di nuovi lavori.

Chiara Camoni Sister #04, 2021 Terracotta nera, ferro 85 x 150 x 80 cm Veduta dell'installazione, “Io dico Io – I say I” Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, 2021 Courtesy l’artista  Collezione 54, Milano Foto Monkeys Video Lab

Chiara Camoni Barricata #1, 2016 (particolare) Terracotta policroma, acqua, fiori Dimensioni variabili Courtesy  l’artista e SpazioA Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Serpentessa ‒ parte di Ipogea, 2021 Pietra Installazione site specific permanent  Courtesy l’artista e Palazzo Bentivoglio, Bologna Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Sister (Capanna), 2022 Ferro, terracotta nera, fiori freschi e fiori secchi 220 x 140 x 150 cm Courtesy l’artista Nicoletta Fiorucci Collection Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Senza Titolo, Mosaico #04, 2018 Marmo Dimensioni variabili Courtesy l’artista Collezione Agovino Foto Studio Gonella, Torino

Chiara Camoni Sister (degli Scarti), 2023 Terracotta policroma, ferro, vegetale secco, plastica e materiali vari 150 x 220 x 150 cm Courtesy l’artista e SpazioA Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Vasi Farfalla, 2020 Grès smaltato, elementi vegetali Dimensioni variabili Courtesy l’artista e SpazioA, Pistoia Foto Camilla Maria Santini

Chiara Camoni Ritratto Foto Lorenzo Bottari 

La strana storia del pittore Niko Pirosmani (che la Fondazione Beyeler ha appena finito di ricordare)

NIKO PIROSMANI, NANNY GOAT Oil on cardboard, 83.4 x 101 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

Nato in relativa povertà e morto in miseria, il pittore primitivista georgiano Niko Pirosmani (1862–1918), è stato protagonista di un’importante mostra alla Fondazione Bayeler di Basilea (Svizzera) che si è conclusa domenica scorsa. Era la prima retrospettiva internazionale a lui dedicata in Europa occidentale (dopo quella, meno approfondita, dell’Albertina Museum in Austria del 2018). Eppure Pirosmani, con le sue composizioni studiate, i personaggi dai volti inespressivi, i pochi colori intensi che emergono dall’oscurità delle tele cerate, oltre ad essere molto conosciuto e amato in Georgia, per un certo periodo ha goduto di grande fama postuma (gli sono stati dedicati libri, mostre e film, Picasso per lui ha fatto un lavoro e lo ha paragonato a Van Gogh) e il suo mito si è legato alla storia delle avanguardie.

D’altra parte la biografia di Niko Pirosmani ci arriva costantemente interrotta da buchi, rattoppata da racconti, arricchita da affascinanti leggende. Ed è una storia strana: a tratti fiaba, più spesso tragedia. Nato da una famiglia di contadini nella regione orientale della Cachezia (che si distingue per i vigneti), Pirosmani, aveva due sorelle maggiori. Ed è appunto per andare a vivere da una queste che, nel 1870 dopo la morte del padre, si trasferisce nella capitale, Tbilisi. Per poco tempo le cose vanno bene poi muore anche la sorella, allora Pirosmani va a lavorare a casa di una famiglia benestante, dove impara a leggere e scrivere sia in georgiano che in russo.

Intraprenderà molti mestieri (il negoziante, il ferroviere, il pastore, il disegnatore di insegne) senza avere successo in nessuno. Girovagherà, senza un proprio tetto sulla testa e un minimo di stabilità economica per tutta la vita. Alla miseria si deve anche la sua morte prematura (aveva solo 56 anni), visto che l’influenza, con ogni probabilità, non gli sarebbe stata fatale se non fosse stato debole e malnutrito.

Naturalmente, a dispetto delle difficoltà, ha continuato sempre a dipingere

Era autodidatta e, pare lavorasse su commissione (si dice per i negozianti di Tbilisi, ma non ci sono elementi che lo confermino o smentiscano). Faceva un largo uso del colore nero perché poteva comperarlo a prezzi irrisori dagli impresari di pompe funebri e gli capitava di riutilizzare vecchie insegne di latta al posto della tela. Di certo non era parsimonioso nella scelta dei soggetti: dipingeva persone povere e benestanti, animali di ogni genere, nature morte e temi storici. Non faceva paesaggi urbani ma arricchiva con fiori, piante e scampoli di vedute della sua terra ogni opera. Aveva una pennellata vigorosa e non si perdeva nei chiaroscuri: nelle sue tele le figure emergono dall’oscurità o da campiture di colori pieni, si prendono il centro della scena senza timidezze e ci guardano diritte negli occhi con aria inespressiva. O meglio uomini e donne sono inespressivi, gli animali domestici no, a volte il loro sguardo è dolce, altre illuminato dalla simpatia, altre ancora è amorevole. I colori sono pochi ma decisi, sempre strettamente imparentati ai toni primari, la composizione molto solida, di quando in quando il pittore ci suggerisce la profondità ma in genere preferisce impedire al nostro sguardo di vagare.

La sua pittura semplice, solida, diretta e intuitiva, nel 1912 incontra il poeta russo Mikhail Le-Dantju e gli artisti georgiani d’avanguardia Kirill e Ilia Zdanevich nelle osterie della capitale e l’anno successivo, le opere di Pirosmani saranno esposte a Mosca insieme a quelle di Marc Chagall, Natalja Gončarova e Casimir Malevič. Il poeta e i due artisti lo supporteranno pure collezionando i suoi dipinti ma poi la guerra gli metterà ancora una volta i bastoni tra le ruote.

Si dice a un certo punto si fosse innamorato di un’attrice francese (Marguerite de Sèvres ritratta nel dipinto “The actress Margarita”) e che le avesse comperato tanti fiori da coprire la piazza su cui si affacciava l’alloggio che la donna aveva a Tbilisi. Si dice anche che l’avesse ingannata facendole credere di essere ricco e che lei, una volta scoperta la bugia, fosse partita in fretta e furia. Questa storia potrebbe non essere vera, ma lo scrittore russo Konstantin Paustovskii (premio nobel per la letteratura nel ’65) la descrisse in un suo romanzo tramandandola ai posteri. E non fu il solo. Ancora una volta il destino di Pirosmani sovrappone il mito alla realtà e poi mischia le carte.

Della sua vasta produzione oggi sono rimaste circa 200 opere, il resto è andato perduto. Alla Fondazione Beyeler (che adesso ospita una grande personale dell’artista canadese Jeff Wall) ne erano esposte 50.

NIKO PIROSMANI, THE ACTRESS MARGARITA Oil on oilcloth, 115.9 x 94 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, TATAR CAMEL DRIVER Oil on cardboard, 99.3 x 99.3 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, GIRAFFE Oil on oilcloth, 137.4 x 111.7 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundati

NIKO PIROSMANI, THE KAKHETIAN TRAIN Oil on cardboard, 70 x 141 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, BEAR ON A MOONLIT NIGHT Oil on cardboard, 99.9 x 80 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, PEASANT WOMAN WITH CHILDREN FETCHING WATER Oil on oilcloth, 112.3 x 92.6 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation