Quest’anno, per la prima volta, i Paesi Nordici (Norvegia, Finlandia e Svezia) hanno ceduto il loro padiglione della Biennale di Venezia al popolo Sami. L’installazione affidata ai tre artisti indigeni Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara, Anders Sunna si intitola semplicemente The Sámi Pavilion e racconta, sostanzialmente, della difficoltà di mantenere fede a se stessi in un mondo che parla una lingua diversa dalla tua e che, spesso, preferisce far finta di non sentirti. Ma propone anche una prospettiva pacificatoria. Oltre a evocare atmosfere lontane.
I Sami, chiamati erroneamente lapponi, sono l’unica popolazione indigena europea. Occupano una porzione di territorio freddo e vasto che chiamano Sapmi e comprende porzioni di quattro nazioni (Norvegia, Finlandia, Svezia e Russia). Ci sono notizie del loro insediamento fin dal 551 anche se le loro lingue (ne esistono diverse) sono sempre state tramandate oralmente. All’origine erano nomadi. Si dedicavano alla pesca, alla caccia e ad allevare renne. Quest’ultima attività non è venuta meno neppure oggi dopo che hanno smesso di spostarsi. E’ talmente diffusa che tutti e tre gli artisti chiamati a rappresentare i Paesi Nordici hanno familiari che praticano questo mestiere.
Ma allevare renne può non essere per niente facile. I problemi dei Sami sono cominciati con quello che viene definito colonialismo nordico: le loro terre sono state sfruttate mentre i missionari cercavano di convertirli dallo sciamanesimo e dall’animismo che erano le loro tradizionali religioni. La pastorizia nel frattempo è diventata motivo di dissapori. E di cause giudiziarie. Alla base di queste incomprensioni la differenza culturale e la tendenza occidentale a interpretare le dispute con i propri canoni.
The Sámi Pavilion propone “dei modi di guarire, sanare e far rinascere la mentalità Sami oggi” a partire da un modello di curatela molto particolare. Ad occuparsene infatti, è stato un gruppo composto da una studiosa sami (Liisa-Rávná Finbog), dalla direttrice dell'OCA (Office for Contemporary Art Norway) Katya García-Antón e dalla guardiana della terra sami Beaska Niillas. Ma non solo. Seguendo l'usanza Sami di imparare dagli anziani della comunità, gli artisti selezionati hanno anche beneficiato della guida individuale di alcuni di loro.
Nonostante ciò i progetti esposti sono venati d’amarezza, a tratti le opere si fanno persino brutali. Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara, Anders Sunna, in ogni caso, risolvono il padiglione con equilibrio. Senza che nessuna voce risulti disarmonica. Usando una certa varietà di mezzi espressivi e lasciando respirare i lavori, cullati dalla luce naturale che entra dalle grandi vetrate del padiglione modernista.
Con la performance in tre atti Matriarchy, registrata su video digitali, la regista teatrale Feodoroff parla di deforestazione per sollecitare un cambio di passo. “Il mio lavoro-ha detto- propone modi per proteggere le ultime vecchie foreste rimaste in crescita e lasciare che le aree disboscate abbiano il tempo di guarire. Il nostro messaggio è, per favore, non comprare la nostra terra, compra invece la nostra arte.”
Illegal Spirits of Sápmi, dell’unico uomo del gruppo, mette invece insieme tecnica mista, suono e documenti d'archivio, per creare un polittico dolente in cui esperienza personale e di comunità procedono in parallelo. La famiglia di Sunna, infatti, ha una storia di resistenza nei confronti di una legge dello Stato svedese che ha profondamente colpito i pastori. Nel tempo questa disputa si è inasprita “Quando lo stato- spiega il sito del progetto- ha rimosso i segni delle renne Sunna, ereditati da generazioni, trasformandoli in fuorilegge nella loro stessa terra.” Producendo al contempo cumuli di documenti giudiziari e aprendo una ferita insanabile nei protagonisti. L’artista racconta la rabbia e l’impotenza con dei quadri in cui predominano i colori primari e la complessa narrazione scorre con regole proprie, quasi oniriche. L’ultimo l’ha addirittura bruciato.
I toni forti del lavoro di Sunna evaporano nella leggerezza poetica delle sculture di Máret Ánne Sara. Le opere, composte da parti di renne morte di morte naturale (stomaci, tendini, tessuti), piante della tundra essiccate e odori, fluttuano nello spazio come disincarnate. E alludono alla sofferenza ma anche alla memoria, alla cura e ai saperi tradizionali. Oltre ad una spiritualità che non può prescindere dal profondo legame con la natura.