La strana storia del pittore Niko Pirosmani (che la Fondazione Beyeler ha appena finito di ricordare)

NIKO PIROSMANI, NANNY GOAT Oil on cardboard, 83.4 x 101 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

Nato in relativa povertà e morto in miseria, il pittore primitivista georgiano Niko Pirosmani (1862–1918), è stato protagonista di un’importante mostra alla Fondazione Bayeler di Basilea (Svizzera) che si è conclusa domenica scorsa. Era la prima retrospettiva internazionale a lui dedicata in Europa occidentale (dopo quella, meno approfondita, dell’Albertina Museum in Austria del 2018). Eppure Pirosmani, con le sue composizioni studiate, i personaggi dai volti inespressivi, i pochi colori intensi che emergono dall’oscurità delle tele cerate, oltre ad essere molto conosciuto e amato in Georgia, per un certo periodo ha goduto di grande fama postuma (gli sono stati dedicati libri, mostre e film, Picasso per lui ha fatto un lavoro e lo ha paragonato a Van Gogh) e il suo mito si è legato alla storia delle avanguardie.

D’altra parte la biografia di Niko Pirosmani ci arriva costantemente interrotta da buchi, rattoppata da racconti, arricchita da affascinanti leggende. Ed è una storia strana: a tratti fiaba, più spesso tragedia. Nato da una famiglia di contadini nella regione orientale della Cachezia (che si distingue per i vigneti), Pirosmani, aveva due sorelle maggiori. Ed è appunto per andare a vivere da una queste che, nel 1870 dopo la morte del padre, si trasferisce nella capitale, Tbilisi. Per poco tempo le cose vanno bene poi muore anche la sorella, allora Pirosmani va a lavorare a casa di una famiglia benestante, dove impara a leggere e scrivere sia in georgiano che in russo.

Intraprenderà molti mestieri (il negoziante, il ferroviere, il pastore, il disegnatore di insegne) senza avere successo in nessuno. Girovagherà, senza un proprio tetto sulla testa e un minimo di stabilità economica per tutta la vita. Alla miseria si deve anche la sua morte prematura (aveva solo 56 anni), visto che l’influenza, con ogni probabilità, non gli sarebbe stata fatale se non fosse stato debole e malnutrito.

Naturalmente, a dispetto delle difficoltà, ha continuato sempre a dipingere

Era autodidatta e, pare lavorasse su commissione (si dice per i negozianti di Tbilisi, ma non ci sono elementi che lo confermino o smentiscano). Faceva un largo uso del colore nero perché poteva comperarlo a prezzi irrisori dagli impresari di pompe funebri e gli capitava di riutilizzare vecchie insegne di latta al posto della tela. Di certo non era parsimonioso nella scelta dei soggetti: dipingeva persone povere e benestanti, animali di ogni genere, nature morte e temi storici. Non faceva paesaggi urbani ma arricchiva con fiori, piante e scampoli di vedute della sua terra ogni opera. Aveva una pennellata vigorosa e non si perdeva nei chiaroscuri: nelle sue tele le figure emergono dall’oscurità o da campiture di colori pieni, si prendono il centro della scena senza timidezze e ci guardano diritte negli occhi con aria inespressiva. O meglio uomini e donne sono inespressivi, gli animali domestici no, a volte il loro sguardo è dolce, altre illuminato dalla simpatia, altre ancora è amorevole. I colori sono pochi ma decisi, sempre strettamente imparentati ai toni primari, la composizione molto solida, di quando in quando il pittore ci suggerisce la profondità ma in genere preferisce impedire al nostro sguardo di vagare.

La sua pittura semplice, solida, diretta e intuitiva, nel 1912 incontra il poeta russo Mikhail Le-Dantju e gli artisti georgiani d’avanguardia Kirill e Ilia Zdanevich nelle osterie della capitale e l’anno successivo, le opere di Pirosmani saranno esposte a Mosca insieme a quelle di Marc Chagall, Natalja Gončarova e Casimir Malevič. Il poeta e i due artisti lo supporteranno pure collezionando i suoi dipinti ma poi la guerra gli metterà ancora una volta i bastoni tra le ruote.

Si dice a un certo punto si fosse innamorato di un’attrice francese (Marguerite de Sèvres ritratta nel dipinto “The actress Margarita”) e che le avesse comperato tanti fiori da coprire la piazza su cui si affacciava l’alloggio che la donna aveva a Tbilisi. Si dice anche che l’avesse ingannata facendole credere di essere ricco e che lei, una volta scoperta la bugia, fosse partita in fretta e furia. Questa storia potrebbe non essere vera, ma lo scrittore russo Konstantin Paustovskii (premio nobel per la letteratura nel ’65) la descrisse in un suo romanzo tramandandola ai posteri. E non fu il solo. Ancora una volta il destino di Pirosmani sovrappone il mito alla realtà e poi mischia le carte.

Della sua vasta produzione oggi sono rimaste circa 200 opere, il resto è andato perduto. Alla Fondazione Beyeler (che adesso ospita una grande personale dell’artista canadese Jeff Wall) ne erano esposte 50.

NIKO PIROSMANI, THE ACTRESS MARGARITA Oil on oilcloth, 115.9 x 94 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, TATAR CAMEL DRIVER Oil on cardboard, 99.3 x 99.3 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, GIRAFFE Oil on oilcloth, 137.4 x 111.7 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundati

NIKO PIROSMANI, THE KAKHETIAN TRAIN Oil on cardboard, 70 x 141 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, BEAR ON A MOONLIT NIGHT Oil on cardboard, 99.9 x 80 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

NIKO PIROSMANI, PEASANT WOMAN WITH CHILDREN FETCHING WATER Oil on oilcloth, 112.3 x 92.6 cm The Collection of Shalva Amiranashvili Museum of Fine Arts of Georgia, Georgian National Museum, Tbilisi © Infinitart Foundation

In Svizzera dopo vent’anni la grande fotografia di Jeff Wall, che cita la pittura e rivendica il diritto di artefare la spontanea bizzarria della quotidianità

Jeff Wall, A Sudden Gust of Wind (after Hokusai), 1993 Transparency in lightbox, 229 x 377 cm Glenstone Museum, Potomac, Maryland © Jeff Wall

Figura cardine della ricerca artistica contemporanea attraverso la fotografia, capace di fondere all’immagine elementi che richiamano altre discipline (come pittura, cinema, e teatro), il canadese Jeff Wall, sarà protagonista di un’importante mostra personale alla Fondazione Beyeler di Riehen. L’esposizione, che inaugurerà la programmazione 2024 del museo progettato da Renzo Piano nei pressi di Basilea, è la prima in Svizzera dopo quasi vent’anni per Wall e sarà composta da 50 opere (quasi tutte di grande formato). Arrotondando, si potrebbe dire: una per ogni anno di carriera dell’artista.

Nato nel ’46 a Vancouver, Jeff Wall infatti, si dedica all’arte fin dagli anni ’60 quando, studente alla Università della British Columbia, produce dei lavori concettuali pittorici. Ma poi smette, per ritornare con quello che sarebbe diventato il suo stile distintivo (fotografia a stampa lucida montata su light box) solo nel ’77, dopo un viaggio in Europa in cui vede molti musei e nota dei cartelloni pubblicitari illuminati. L’idea di usare le insegne luminose, che ai tempi cominciavano a rafforzare l’impatto delle foto pubblicitarie, gli viene allora. E si rivelerà una scelta vincente: con quelle grandi immagini retroilluminate, Wall, interpreta lo spirito del tempo e porta per mano l’arte verso un periodo storico diverso. Ovviamente non finisce lì, perchè Jeff Wall, fin dal principio, si distacca dalla fotografia come documentazione del reale, anzi mette proprio in discussione l’assioma secondo il quale sia fatta per cogliere l’attimo. E infarcisce le sue immagine di riferimenti alla pittura (nella composizione, nei colori, nel modo in cui cade la luce), basti pensare che esordisce con “The Destroyed Room” (1978), un groviglio di indumenti ammassati e materassi lacerati, ispirato a “La morte di Sardanapalo” di Eugène Delacroix. Poi verranno i cenni alla letteratura, al teatro e, naturalmente, al cinema (cui tutte e sue emblematiche immagini si legano come singoli fotogrammi di narrazioni che ci sono precluse).

Con le sue immagini che rivendicano il diritto di essere belle, poetiche, colte e persino garbatamente bizzarre, Jeff Wall diventerà un punto di riferimento per gli artisti della Scuola di Düsseldorf e insieme a uno di loro (Andreas Gursky) e a Cindy Sherman sarà uno degli artisti che usano la fotografia più costosi mai battuti in asta.

Il suo lavoro ha sempre richiesto tempo, attori e non ha disdegnato la tecnologia per raggiungere il risultato desiderato. Non a caso una delle sue opere più conosciute è “A Sudden Gust of Wind (after Hokusai)”(1993), che ricrea al giorno d’oggi, con la fotografia, nelle pianure nei pressi di Vancouver, la xilografia giapponese ottocentesca, “Stazione Yejiri, Provincia di Suruga” di Hokusai, ha richiesto più di un anno per scattare le 100 immagini idonee a “ottenere un montaggio senza soluzione di continuità che dia l'illusione di catturare un momento reale."

Il rifiuto di Wall a condannare la fotografia alla mortalità consegnandola allo scorrere del tempo è fermo, anche nella sua seconda linea di ricerca, quella in cui costruisce scene della quotidianità (un ragazzo disegna dei motivi sulla sua maschera con un pennarello, un uomo sorregge dei pesi, una bimba si butta per terra sul marciapiede ecc.) apparentemente rubate in giro per le strade, con prove attori e post-produzione.

In un’intervista ha detto a proposito della fotografia: “Stiamo ancora scoprendo cosa sia questa miscela di realtà, reportage, performance, ricostruzione e composizione come forma d’arte

La mostra di Jeff Wall alla Fondazione Beyeler oltre a ripercorrere tutta la carriera dell’artista canadese darà ampio spazio alla sua produzione degli ultimi anni, presentando anche lavori che non sono mai stati esposti prima. Si inaugurerà il prossimo 28 gennaio e proseguirà fino 21 aprile 2024.

Jeff Wall, Summer Afternoons, 2013 Two lightjet prints; left: 183 x 212.4 cm; right: 200 x 250 cm The George Economou Collection © Jeff Wall

Jeff Wall, Boy falls from tree, 2010 Lightjet print, 226 x 305.3 cm Emanuel Hoffmann Foundation, gift from the President 2012, on permanent loan to the Öffentliche Kunstsammlung Basel © Jeff Wall

Jeff Wall, Mask maker, 2015 Inkjet print, 167.4 x 134.5 cm Courtesy of Jeff Wall and White Cube © Jeff Wall

Jeff Wall, In front of a nightclub, 2006 Transparency in lightbox, 226 x 360.8 cm Courtesy of the artist © Jeff Wall

Dipinti in Italia 40 anni fa, i “Modena Paintings” di Jean-Michel Basquiat, si possono ammirare insieme per la prima volta in Svizzera

Jean-Michel Basquiat, The Guilt of Gold Teeth, 1982 Acrylic, spray paint, and oil stick on canvas, 240 x 421.3 cm Nahmad Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Annik Wetter

Morto 27enne per overdose dopo soli 10 anni di seppur intensa attività, Jean-Michel Basquiat, resta uno degli artisti più importanti della seconda metà del XX secolo. Il primo afroamericano ad avere successo in un mondo dominato dai bianchi. Tra le sue opere, che riunivano astrattismo e figurazione, parola e immagine, elementi di cultura pop e satira sociale, un gruppo di lavori è particolarmente significativo. Basquiat li dipinse in soli otto giorni in un magazzino della Pianura Padana, a Modena, in Italia, per una mostra che non si fece mai. Sono passati alla storia come i “Modena Paintings”.

Adesso la Fondazione Beyeler di Basilea (Svizzera) li ha riuniti per la prima volta in una mostra che si intitola semplicemente: “Basquiat. The Modena Paintings” (inaugurata il 10 giugno durerà fino al 27 agosto). E che intende approfondire il ruolo che queste opere ebbero nella carriera di Basquiat oltre alle loro caratteristiche peculiari. Tra loro c’è il record d’asta “Untitled (1982 Basquiat devil painting)”.

Nato nel 1960 a Brooklyn da padre haitiano e madre di origini portoricane, Jean-Michel Basquiat, era il secondo di quattro figli (al fratello sarebbe toccato il destino di morire prima della sua nascita mentre le due sorelle minori gli sarebbero sopravvissute). Del suo talento artistico, dimostrato fin da bambino e assecondato dalla madre, si sarebbe parlato a lungo, così come delle sue amicizie e conoscenze: quelle dei tempi della scuola o di poco successive (con Keith Haring, ad esempio), così come di quelle che verranno dopo (tra loro, il rapporto con Francesco Clemente). Anche se il sodalizio con Andy Warhol resta il suo legame più famoso (sulle opere che crearono insieme, si concentra la mostra “Basquiat × Warhol. Painting four hands”, in corso alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, fino al 28 agosto). Le sue incursioni del mondo della musica, della moda e della cultura metropolitana di quell’epoca in genere, non avrebbero fatto che accrescere la fama di un artista che a metà degli anni '80, poco più che ventenne, guadagnava già 1,4 milioni di dollari all'anno e riceveva somme forfettarie di 40.000 dollari dai mercanti d'arte. Qualcuno dice che l’abuso di droghe, che l’avrebbe ucciso, sarebbe stato figlio di quella fama, anche se l’infanzia tribolata di Basquiat sembra un’indiziata più probabile. Nella sua opera, caratterizzata da pennellate potenti e molto espressive ma anche libere, oltre che da colature di colore e tratti incisi, coesistono elementi ispirati al vodoo come all’anatomia, parole tratte dai testi più vari, mentre figure nere, rappresentate come santi ed eroi, si guadagnano la ribalta in una giungla urbana pullulante di tratti e polimorfa.

I “Modena Paintings” sono otto quadri di grandi dimensioni che nel 1982 (considerato l’anno più fortunato nella produzione dell’artista newyorkese), Jean-Michel Basquiat, avrebbe dovuto esporre nella galleria di Emilio Mazzoli a Modena (sia lo spazio espositivo che il mercante sono ancora in attività). Per dipingerli, all’inizio dell’estate di quell’anno, Basquiat venne in Italia e Mazzoli gli mise a disposizione il materiale e un magazzino in cui lavorare.

Sono grandi, le opere più grandi mai prodotte fino ad allora da Basquiat, perché il giovane artista statunitense trovò quelle enormi tele bianche nel magazzino e decise di usarle. Lì incontrò anche le opere di Mario Schifano, che aveva dipinto nello stesso spazio parecchie volte. Tuttavia, Basquiat, non era felice, anzi era profondamente contrariato (un insieme di stati d’animo che sarebbero confluiti nei “Modena Paintings”).

Tanto per cominciare, già l’anno precedente aveva fatto una mostra da Mazzoli con lo pseudonimo di SAMO© (quello che usava quando faceva graffiti sugli edifici di edifici di Lower Manhattan insieme all’amico Al Diaz) ma era stata un disastro (non era stato venduto un solo quadro). Adesso ci avrebbe riprovato con il suo nome di battesimo, dopo il successo clamoroso della mostra autografa alla galleria newyorkese di Annina Nosei, dopo aver cominciato a lavorare con Gagosian (da cui Basquiat si sarebbe presentato con la fidanzata del momento, una giovane e ancora sconosciuta Madonna).

Ma non è solo questo a renderlo inquieto. Arrivato a Modena, infatti, all’artista viene detto che la mostra è più che imminente e che avrebbe avuto a disposizione solo 8 giorni per preparare tutto il materiale da esporre. Basquiat si sente preso in giro, è allo stesso tempo arrabbiato e ferito. In seguito commenterà l’episodio con queste parole: o “fare otto quadri in una settimana, per la mostra della settimana successiva. Era una delle cose che non mi piacevano. Li ho fatti in questo grande magazzino lì. […] Era come una fabbrica, una fabbrica malata. L'ho odiato. Volevo essere una star, non una mascotte da galleria”.

Tuttavia dipinge. Con furia, con ispirazione, dipinge. Otto tele in otto giorni, di almeno 2 metri per quattro. Dietro ognuna, l’artista, indica il luogo di produzione (Modena) e appone la sua firma. Si tratta delle opere più grandi che abbia mai realizzato e anche delle migliori. Tant’è vero che una di loro, “Untitled (1982 Basquiat devil painting)”, nel 2022, verrà venduta dalla casa d’aste britannica Phillips per 85 milioni di dollari. Nonostante ciò, la mostra naufraga prima di salpare: i galleristi Nosei e Mazzoli non si accordano e l’esposizione viene annullata.

Adesso quelle tele di Jean-Michel Basquiat, considerate capolavori, sono sparse in collezioni private di Stati Uniti, Asia e Svizzera. “Basquiat. The Modena Paintings” alla Fondazione Beyeler, le riunisce di nuovo dopo 40 anni. E’ la prima volta in assoluto che vengono messe in mostra tutte in gruppo.

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Devil), 1982 Acrylic and spray paint on canvas, 238.7 x 500.4 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: © 2023 Phillips Auctioneers LLC. All Rights Reserved

Jean-Michel Basquiat, Profit 1, 1982 Acrylic, oil stick, marker, and spray paint on canvas, 220 x 400 cm Private Collection, Switzerland © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Robert Bayer

Jean-Michel Basquiat, Boy and Dog in a Johnnypump, 1982 Acrylic, oil stick, and spray paint on canvas; 240 x 420.4 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Daniel Portnoy

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Angel), 1982 Acrylic and spray paint on canvas, 244 x 429 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Robert Bayer

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Cowparts), 1982 Acrylic, spray paint, and oil stick on canvas, 239.4 x 420 cm Aby Rosen Collection, New York © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Adam Reich

Jean-Michel Basquiat, The Field Next to the Other Road, 1982 Acrylic, enamel paint, spray paint, oil stick, and ink on canvas, 221 x 401.5 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Adam Reich

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Woman with Roman Torso [Venus]), 1982 Acrylic and oil stick on canvas, 241 x 419.7 cm Private Collection © Estate of Jean-Michel Basquiat. Licensed by Artestar, New York Photo: Robert Bayer