Biennale di Venezia| Tra sculture di cacao e decolonizzazione il Padiglione Paesi Bassi del collettivo CATPC riabbracccia lo spirito furibondo di un funzionario belga
Pervaso da una vibrante energia e profumato di cacao misto ad olio di palma, “The International Celebration of Blasphemy and The Sacred”, il Padiglione Paesi Bassi del collettivo congolese Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise (CATPC) è quanto di più radicale (e da un certo punto di vista, contemporaneo) si possa incontrare nella 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. Simile (in versione molto ridotta) a Documenta 2022. Al centro del progetto c’è la restituzione temporanea da parte del Virginia Museum of Fine Arts di un’antica scultura, che rappresenta lo spirito arrabbiato di un funzionario belga decapitato in Congo durante la rivolta dei Pende negli anni ’30.
Anche se l’opera, i visitatori della Biennale di Venezia, potranno osservarla soltanto in streaming (è esposta nella sede del collettivo a Lusanga in Congo), si tratta di un’importante vittoria per il gruppo di artisti africani che da anni insisteva per riaverla.
Pur se il pubblico del padiglione non si troverà di fronte la figuretta lignea con gli occhi sporgenti e le sopracciglia arcuate in cui la popolazione locale credeva di aver intrappolato lo spirito furibondo di Maximilien Balot, avra’ a disposizione un buon numero di sculture da guardare. Opere create dal CATPC per l’appuntamento veneziano, che effigiano spiriti maligni e scene di lotta, fatte con materiali che possono sembrare bizzarri ed esotici ad un occidentale (zucchero, cacao, olio di palma ecc.) ma che per gli artisti congolesi sono decisamente a chilometro zero. Originariamente modellate nella terra prelevata “dagli ultimi lembi di foresta rimasti a circondare la piantagione” (il collettivo ha sede nei terreni un tempo appartenuta alla multinazionale Unilever che conta tra i propri marchi anche Knorr e altri che troviamo quotidianamente negli scaffali del supermercato), sono state poi colate nelle materie prime provenienti dalla terra del collettivo.
Le opere si basano sugli eventi che segnarono la rivolta del popolo Pende contro il dominio coloniale belga nel 1931 (ci fu uno stupro e la gente si ribellò violentemente; Balot, che prima reclutava con la forza persone dei villaggi per lavorare nei campi di canna da zucchero, venne decapitato e smembrato; i belgi reagirono con brutalità). Le sculture, per quanto evochino un massacro sono fantasiose, solide ed armoniose nei volumi, realizzate con cura e risultano piacevoli da guardare, non stupisce, quindi, che il CATPC le abbia messe in vendita. Questa operazione commerciale, di norma severamente vietata alla Biennale, è stata autorizzata perché permetterà agli artisti del collettivo di ricomprare terreni usati per la monocultura e di riconvertirli in progetti agricoli sostenibili.
“I proventi- ha detto, Matthieu Kasima, uno degli artisti del collettivo- serviranno a finanziare il riacquisto di terreni un tempo ricoperti dalla foresta vergine e confiscati dai colonizzatori europei per far spazio a piantagioni su larga scala, principalmente zucchero, cacao e palme da olio. Una foresta sacra, necessaria non solo al sostentamento delle tribù indigene limitrofe ma anche allo svolgimento della loro vita spirituale”.
Il Cercle d’Art des Travailleurs de Plantation Congolaise è attualmente composto da una ventina di persone, alla formazione artistica dei membri (quando il collettivo fu fondato sono stati istruiti da professionisti) oltre che al loro mettersi insieme come gruppo, ha concorso l’artista olandese, Renzo Martens, che nel tempo ha continuato a collaborare con loro. Martens, che a Venezia compare come curatore insieme al critico Hicham Khalidi (anche lui olandese ma di origine marocchina) è stato centrale sia per la partecipazione del collettivo alla Biennale (originariamente era stato contattato lui per rappresentare i Paesi Bassi), sia per il prestito temporaneo della scultura di Balot. L’antico manufatto è stato, infatti, concesso dal museo statunitense solo quando si è saputo dell’invito di Martens all’evento. Il CATPC, da parte sua, provava da anni ad ottenerlo senza esserci mai riuscito.
“Sono così felice- ha affermato Martens quando ha saputo del prestito- che siamo riusciti a creare, anche se su scala piccola, e ancora simbolica, condizioni di parità tra i musei e le comunità nelle piantagioni che hanno finanziato la costruzione dei musei . Ora che VMFA ha deciso di entrare in un dialogo costruttivo con CATPC, questa scultura, e l'arte in generale, possono svolgere pienamente il suo ruolo nella vita. Non potrei essere più compiaciuto."
Va detto che la scultura di Balot, comprata negli anni ’70 per 700 dollari dallo studioso americano, Herbert Weiss, è stata in seguito legalmente acquisita dal Virginia Museum of Fine Arts. I costi del prestito temporaneo, però, sono sostenuti dal Mondrian Fund (la fondazione olandese che finanzia la partecipazione dei Paesi Bassi alla Biennale). E non devono essere nemmeno particolarmente bassi visto che un curatore del museo statunitense ha accompagnato l’oggetto durante il viaggio verso l‘Africa e ne ha supervisionato l’installazione.
L’opera è attualmente esposta nella galleria White Cube di Lusanga in Congo (fino al 24 novembre quando gli americani se la riporteranno a casa). Martens in un’intervista ha detto che questa distanza della scultura dai visitatori dei Giardini li mette nei panni dei congolesi prima della restituzione del manufatto. Ha anche aggiunto: "Negli ultimi 50 anni è stato disponibile solo per il pubblico occidentale. Ora è disponibile solo per le persone nella Repubblica Democratica del Congo".
Il video, in cui le immagini del ritratto ligneo raggiungeranno chi entrerà nel padiglione, è stato posizionato con la parte posteriore dello schermo rivolta al vicino padiglione belga in modo da sottolineare le responsabilità del Belgio nello sfruttamento del Congo prima della sua indipendenza.
L’esposizione, oltre a mettere in luce il problema delle sempre più numerose richieste di restituzione di opere d’arte prodotte nel sud del mondo ma conservate in Occidente, vuole rivendicare la responsabilità dei musei europei e statunitensi nello sfruttamento delle ex-colonie (secondo quest’interpretazione, il patrimonio e la crescita delle istituzioni culturali si dovrebbe all’uso di denaro guadagnato danneggiando o abusando di altri popoli).