La Chola Poblete, un’artista indigena e queer sulla cresta dell’onda
Nata a Mendoza nella parte nord-occidentale dell’Argentina (a ridosso delle Ande) come Mauricio trentacinque anni fa e cresciuta in una famiglia indigena di pochi mezzi prevalentemente femminile, La Chola Poblete, è oggi un artista in vertiginosa ascesa. La partecipazione alla Biennale d’arte di Adriano Pedrosa “Stranieri Ovunque. Foreigners Everywhere” dove ha ottenuto la menzione speciale della giuria, infatti, non è venuta da sola. E, dopo aver vinto il prestigioso premio “Artist of the Year” di Deutsche Bank, il suo colorato universo dolente, animato da madonne, dee, simboli pop, erotismo e crudo umorismo, adesso è al centro della mostra “Guaymallénal” (da un dipartimento nella provincia della sua città natale) al Mudec di Milano.
Se non bastasse, a giugno, si è confrontata con il mercato iper-competitivo della fiera più famosa in assoluto (Art-Basel). E poi i segnali premonitori c’erano già tutti, quando, durante Arco Madrid, la Regina di Spagna l’aveva voluta conoscere dopo essere stata colpita dai suoi acquerelli esposti nello stand della galleria che la rappresenta. Pare che La Chola Poblete, la cui opera è in gran parte una critica delle dinamiche post-coloniali, trovandosi di fronte Letizia abbia affermato: “Come stai? Eccoci qui, cinquecentotrenta anni dopo!”, suscitando un momento d’imbarazzo prontamente superato nella sovrana.
L’argentina, che dalla ricercatrice e curatrice, María Amalia García, sul sito e sul catalogo della Biennale, viene descritta così: “è un’artista transdisciplinare che opera con performance, videoarte, fotografia, pittura e oggetti: attraverso un sofisticato immaginario queer, recupera conoscenze ancestrali dai territori sudamericani(…)”, sembra non essersi però montata la testa. In un’intervista rilasciata in occasione dell’inaugurazione al Mudec ha detto: “È un periodo intenso. Ma guardami: io non sono cambiata per niente!” E poi forse è difficile credere a un cambiamento duraturo in un mondo ondivago come quello dell’arte contemporanea.
La Chola Poblete, che a Venezia è arrivata accompagnata dalla madre e dalla sorella al loro primo viaggio al di fuori del Paese, abita da anni a Buenos Aires dove da poco occupa uno studio in un’immobile prestigioso arredato con opere di alcuni dei più famosi artisti contemporanei come Leandro Erlich ed ha perfino un assistente. Ma non è sempre stato facile per lei: quando, fresca di laurea in Arti Visive a Mendoza, è arrivata nella capitale argentina, ha dovuto adattarsi a lavorare in un collettivo. Poi è arrivata qualche vendita e, pian-piano le cose hanno cominciato a marciare.
Attualmente opera con vari medium che usa per parlare della propria identità. Si concentra sul suo essere queer e indigena ma non mancano simboli riferiti alla quotidianità pura e semplice (il condor ad esempio, perché volteggia sulle Ande) e alla banalità stereotipata di un immaginario globalizzato (i manga, etichette di prodotti di consumo ecc.). Ma anche alla storia (il barocco andino) e all’attualità dell’arte (“Comedian”, la banana che Maurizio Cattelan ha appeso a un muro, che compare in più di un’opera). Negli acquerelli, spesso eseguiti su larga scala, alla precisione calligrafica di alcuni elementi se ne contrappongono altri appena abbozzati, oltre a scritte e motivi decorativi, in un turbinio concitato e apparentemente spontaneo. Mentre il colore, vivo, a momenti accostato per toni contrapposti, tra eleganti chiaroscuri e colature drammatiche lotta per prendere il sopravvento sulla narrazione e sul bianco del supporto.
All’interno di questi pezzi ci sono i simboli prediletti da La Chola Poblete come: la madonna, le patate e il pane. In merito alla prima (che nelle sue opere appare idealizzata ma anche leggermente rivisitata, e sovrappone alla Vergine Maria la divinità latinoamericana della Pachamama) lei ha raccontato in un’altra intervista: “(…) Mio nonno è morto a 33 anni. Si raccontava che da ragazzo, in Bolivia, avesse trovato sepolta sotto terra la figura di una vergine. La prese e gli dissero che avrebbe dovuto adorarla: se trovi una piccola vergine devi adorarla sempre. Non l'ha fatto. Era uno stronzo, l'ha lanciata e si è rotta. Poi gli dissero che una maledizione lo avrebbe seguito. Ed è cresciuto con quell'idea. Morì fulminato, all’età di Cristo, e in punto di morte disse: ‘Questo è per la Vergine’. Quindi, sono cresciuta con rispetto per la Vergine a causa di questo mito familiare su quanto potente potesse essere questa figura (…)” Aggiungendo poi: “(…) Un giorno ho comprato un rotolo per realizzare grandi acquerelli. Stavo per compiere 33 anni e cominciavo ad avere paura di questo karma. Ho pensato che fosse ora di rompere con tutto ciò. Allora decisi di fare trentatré vergini, affinché mio nonno potesse riposarsi. È da lì che ho iniziato con la serie (…)”.
Le patate invece, che spesso usa sotto forma di snack prelevandole semplicemente dai sacchetti della multinazionale Lay’s, simboleggiano soprattutto la deprivazione del suolo latino-americano da parte dei colonizzatori (questi ultimi, ha spesso raccontato, le credevano frutti infernali perché crescevano sottoterra e volevano spingere gli indigeni a smettere di mangiarle).
Mentre il pane, con cui fa anche delle sculture (al Mudec ne sono esposte diverse realizzate per l’occasione), ricorda la fertilità della terra, l’originarietà e il nutrimento ma l’artista argentina lo ha anche paragonato all’acquerello: “Quando realizzo una maschera di pane o lavoro con l'acquerello fuso, entrambi seguono un percorso irreversibile. Da un lato, la pasta assume diverse sfumature di colore a seconda di quanto tempo rimane nel forno, cambiando forma, lievitando, crepando e bruciando. Allo stesso modo, l'acquerello distorce il disegno, si mescola con altre macchie e crea nuove forme. Ho la sensazione che questi materiali abbiano una qualità performativa, incarnando la mutevolezza e il flusso”. Senza contare che è un materiale deperibile.