Biennale di Venezia| Il coloratissimo Padiglione Stati Uniti, americano e indigeno, di Jeffrey Gibson

Exterior view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Forecourt sculpture: the space in which to place me (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Il Padiglione Stati Uniti “The Space in Which to Place me”di Jeffrey Gibson è sicuramente uno dei migliori della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia 2024. E basta passarci davanti casualmente per accorgersene: l’edificio palladiano è stato ridipinto con una vernice lucida in un tono di rosso scintillante, ai lati del piazzale (anche lui tinteggiato di rosso) otto bandiere (un simbolo su cui Gibson si è soffermato spesso perché ha a che fare con l’identità e l’appartenenza), multicolori, come i murali su cui si stagliano. In cima alle facciate, due frasi realizzate con i caratteri inventanti dall’artista, che si guardano e completano vicendevolmente (sulla sinistra il titolo della mostra, mentre sulla destra l’esordio della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, "Riteniamo che queste verità siano evidenti”).

C’è anche una scultura fatta di piedistalli di varie altezze e dimensioni accostati tra loro, su cui il pubblico può arrampicarsi per farsi fotografare o riposare un momento. L’opera è rossa a propria volta e ha lo stesso titolo della mostra. "Ho iniziato a pensare al padiglione come a una macchina in cui le persone entrano ed escono cambiate" ha detto, Abigail Winograd, la curatrice indipendente che insieme a Kathleen Ash-Milby (curatrice per l'arte dei nativi americani presso il Portland Art Museum) ha presieduto al progetto.

Ash-Milby, di origine Navajo, è la prima curatrice nativo americana del Padiglione Stati Uniti. Il titolo inoltre fa riferimento a una poesia di Layli Long Soldier, poetessa Oglala Lakota. Ma soprattutto il protagonista, Jeffrey Gibson, con sangue Choctaw e Cherokee, è il primo artista indigeno a rappresentare gli USA da solista in oltre novant’anni di storia del palazzo creato agli inizi del secolo scorso dagli architetti William Adams Delano e Chester Holmes Aldrich. Negli anni ci sono state mostre collaterali certo, e nel 1932, nell'ambito di una collettiva dedicata ai pittori dell'ovest americano, vennero presentati diversi artisti nativi (per lo più rimasti senza nome, insieme a dipinti di: i Ma Pe Wi, Oqwa Pi, Tonita Peña, Awa Tsireh, Julian Martinez, Tse Ye Mu, Otis Polelonema e Fred Kabotie). Anche se il riconoscimento più importante ad un’artista nativo, fino a quest’anno, era venuto dalla Biennale stessa, che nel 2019 aveva assegnato il Leone d’oro alla Carriera a Jimmie Durham (nato Cherokee ha vissuto parecchi anni a Napoli).

Il lavoro di Jeffrey Gibson, del resto, insieme ad assonanze chiare all’opera di Suor Corita Kent (artista pop statunitense, attiva nel movimento per i diritti civili, scomparsa nell’86, che quest’anno torna in Biennale nel Padiglione Santa Sede), risuona della ricerca visionaria e costante di Durham (quest’ultimo, da parte sua, gli aveva riservato parole di stima). Nell’alfabeto difficilmente leggibile di Gibson, fatto di rette ma soprattutto figure geometriche coloratissime, poi, si potrebbero anche rivedere gli arazzi di Alighiero Boetti. Del resto la sua opera cerca proprio di trovare un punto di convergenza tra l’arte tradizionale del suo popolo e quella della contemporaneità. Come se la prima si fosse sviluppata parallelamente alla seconda. In un’intervista rilasciata qualche anno fa ha spiegato: “Colleziono oggetti (indigeni ndr) della prima metà del XX secolo (…). Questo è il momento in cui modelli, colori e influenze globali iniziano a manifestarsi, e questo mi aiuta a costruire un ponte tra l'immagine storicizzata dei nativi e chi so che siamo oggi”.

Ne viene fuori una festa di colori: vivaci, gioiosi, intensi, a tratti psichedelici. Ci sono i toni cangianti degli intricati e stratificati ricami di perline che vibrano ricoprendo sculture e abiti, i coni argentei delle danze powwow, poi, fibbie, borse e altri oggetti indigeni d’epoca che l’artista ha scovato nei mercatini (una curiosità: li ha acquistati come oggetti fatti da autori ignoti ma li ha inseriti nei lavori in modo da poterli estrarre e replicare se qualcuno ne rivendicasse la paternità). E la pittura naturalmente (lui ha sempre dichiarato di considerarsi prima di tutto un pittore), che in alcune opere raggiunge picchi da oltre 150 diverse sfumature di colore, per di più spesso affidati a laboriose composizioni di fettucce intrecciate.

Ma Gibson dissemina anche di citazioni praticamente ogni sua opera, le fonti vanno dai proverbi Dakota alle canzoni di Nina Simone, fino brani di documenti legislativi e discorsi di leader carismatici.

La musica e la moda, infatti, sono due punti di riferimento importanti per Gibson, anche se a Venezia ha privilegiato brani di vari documenti fondanti della più importante democrazia del pianeta. C’è, per esempio, l’Indian Citizenship Act del 1924 (una legge che concede i diritti fondamentali alle popolazioni indigene), e il Civil Rights Act del 1866 (la prima legge federale che definisce la cittadinanza e rivendica l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge). Ed è proprio per un brano di una lettera d’epoca, in cui un Commissario per gli affari indiani metteva in guardia un sovrintendente californiano sull’importanza di far tagliare i capelli ai maschi nativi, che tutte le sculture in mostra hanno fluenti e lunghe chiome.

Non si può quindi negare che l’opera di Gibson abbia una chiave di lettura politica (risolta tuttavia con grazia ed equilibrio) ma ce ne sono anche altre. I sacchi da box ricamati, per esempio, sono frutto degli allenamenti a cui si era sottoposto su consiglio del suo terapista per elaborare la rabbia (in laguna ce n’è esposto uno stupendo, con fitte frange multicolore che arrivano fino a terra e gli conferiscono un’aria regale).

D’altra parte, figlio di un ingegnere civile che lavorava per il Dipartimento della Difesa, Jeffrey Gibson, è un nativo fuori dagli stereotipi. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza viaggiando per gli Stati Uniti ma anche in Germania e Corea, dopo si è laureato alla School of the Art Institute of Chicago per poi ripartire verso il Royal College of Art di Londra (dove ha conseguito un master sponsorizzato dalla sua comunità, la Mississippi Band of Choctaw Indians). Gay, Gibson, incontrò proprio lì quello che sarebbe diventato suo marito (l’artista norvegese Rune Olsen, con cui ha due figli).

La sua carriera non è sempre stata in salita (ha raccontato che, una volta, per lo scoramento, gli è capitato di buttare tutte le sue opere in lavatrice e avviare la macchina). Adesso però ha un gande studio a Georgetown (NY) in una ex-scuola ristrutturata, con un team composto da 15 assistenti (per preparare l’appuntamento in laguna sono saliti a 20). Ha fatto mostre importanti e il suo stesso Padiglione Stati Uniti è presentato dal Portland Art Museum (Oregon) e dal SITE Santa Fe (New Mexico).

Riguardo la propria appartenenza ha detto: “Beh, sono americano. Ho vissuto in molti altri paesi dove quell'identità sostituisce la mia identità di nativo americano nella percezione locale. (...) So cosa vuol dire essere un indigeno negli Stati Uniti, ma come americano, so anche cosa vuol dire essere uno straniero in altri paesi. (…) L’esperienza di essere straniero è stata positiva per me. C'è un'umiltà che deriva dall'essere in un ambiente in cui non posso andare avanti con assoluta fiducia, dove devo ascoltare e prestare molta attenzione, dove non ho il comando e non posso condurre le conversazioni. È il momento di fare un passo indietro, il che è salutare per me, e direi anche che è salutare per la maggior parte delle persone”.

In mostrs ci sono sculture, dipinti e murali. In conclusione anche un video che omaggia il matriarcato indigeno e il potere curativo dell’arte attraverso una irrefrenabile Jingle Dance (un ballo eseguita dalle donne durante i powwow per invocare gli antenati) il ritmo martellante su cui si muovono le ballerine è quello di The Halluci Nation (un gruppo musicale delle Prime Nazioni).

 “The Space in Which to Place me”, il Padiglione Stati Uniti di Jeffrey Gibson è ai Giardini e si potrà visitare per tutta la durata della Biennale di Venezia 2024Stranieri Ovunque- Foreigners Everywhere” (fino al 24 novembre).

Exterior view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Forecourt sculpture: the space in which to place me (2024).Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: IF NOT NOW THEN WHEN (2024); The Enforcer (2024); WE WANT TO BE FREE (2024) Mural: WE ARE MADE BY HISTORY (2024) Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: The Enforcer (2024); WE WANT TO BE FREE (2024); Mural: WE ARE MADE BY HISTORY (2024) Photograph by Timothy Schenck.

The Space in Which to Place me, Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, Installation view. Photo: © artbooms.com

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Birds from left to right: we are the witnesses (2024); if there is no struggle there is no progress (2024). Wall works from left to right: BIRDS FLYING HIGH YOU KNOW HOW I FEEL (2024); IF YOU WANT TO LIFT YOURSELF UP LIFT UP SOMEONE ELSE (2024). Photograph by Timothy Schenck

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Wall works from left to right: GIVE MY LIFE SOMETHING EXTRA (2024); THE RIGHT OF THE PEOPLE PEACEABLY TO ASSEMBLE, 2024. Birds from left to right: if there is no struggle there is no progress (2024); we are the witnesses (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024.  Center: WE HOLD THESE TRUTHS TO BE SELF-EVIDENT (2024) Photograph by Timothy Schenck.

The Space in Which to Place me, Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, Installation view. Photo: © artbooms.com

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Wall works from left to right: WE WILL BE KNOWN FOREVER BY THE TRACKS WE LEAVE (2024); THE RETURNED MALE STUDENT FAR TOO FREQUENTLY GOES BACK TO THE RESERVATION AND FALLS INTO THE OLD CUSTOM OF LETTING HIS HAIR GROW LONG (2024); LIBERTY WHEN IT BEGINS TO TAKE ROOT IS A PLANT OF RAPID GROWTH (2024); THE GREAT SPIRIT IS IN ALL THINGS (2024). Bust: I’M A NATURAL MAN (2024). Photograph by Timothy Schenck.

Installation view of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. From left to right: She Never Dances Alone (2020); WHEREAS IT IS ESSENTIAL TO JUST GOVERNMENT WE RECOGNIZE THE EQUALITY OF ALL PEOPLE BEFORE THE LAW (2024). Photograph by Timothy Schenck

Exterior view of gallery one of the space in which to place me (Jeffrey Gibson’s exhibition for the United States Pavilion, 60th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia), April 20 – November 24, 2024. Photograph by Timothy Schenck.

(L-R) Louis Grachos, Jeffrey Gibson, Kathleen Ash-Milby, and Abigail Winograd. Photo by Cara Romero.

La meditazione, il pesiero, le rocce e il '68 di Lee Ufan all' Hamburger Bahnhof di Berlino

Lee Ufan, Portrait © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / Jacopo La Forgia

A volte, Lee Ufan, espone semplici rocce, magari accoppiate con lastre di metallo, altre crea dei dipinti astratti composti da quelle che sembrano poche pennellate ma che sono in reltà il risultato di settimane di lavoro. La sua arte è un mix di meditazione e pensiero, semplicità e complessità, Oriente e Occidente, che ha fatto la storia dell’arte. Fino a fine mese, sessant’anni di carriera di questo grande maestro della contemporaneità, saranno all’ Hamburger Bahnhof di Berlino.

Nato in Corea, vissuto in Giappone e in Francia, con una mente forgiata dalla filosofia, dalla letteratura e dall’arte, a 88 anni Lee Ufan, è un testimone prezioso dell’evoluzione del pensiero degli ultimi sessant’anni, ma soprattutto un artista acuto che con il suo lavoro ha contribuito a trovare una sintesi tra Oriente, Occidente e contemporaneità. E’ considerato talmente importante che la sua opera è celebrata in ben tre musei dedicati solo a lui, disposti in ognuno dei Paesi in cui si svolge la sua biografia, pensati come un lascito per i posteri (la Fondazione Lee Ufan di Arles che ha sede in un palazzo seicentesco su cui è intervenuto il famoso architetto Tadao Ando; il Lee Ufan Museum di Naoshima un’isola e una città del Giappone note per i musei e le installazioni d’arte contemporanea; lo Space Lee Ufan a Busan una metropoli sud coreana).

D’altra parte Lee Ufan è stato tra i teorizzatori e gli artisti più rappresentativi del Mono-Ha in Giappone (letteralmente "La scuola delle cose"), un movimento simile al Minimalismo americano e forse ancora di più all’Arte Povera italiana (concentrato però particolarmente sul rapporto che intercorre tra oggetto, spazio e spettatore nel lasso di tempo in cui vengono in contatto) e Mono-ha è considerata la corrente più importante nella storia dell’arte giapponese recente (siamo tra gli anni ’60 e i ’70). Viene da sé quindi che già per questo Ufan abbia un posto nei libri di Storia ma lui è stato anche membro del Dansaekhwa in Corea (generalmente tradotto come “Pittura monocromatica coreana”, stesso periodo) altro movimento-colonna dell’arte asiatica del dopo-guerra.

In questi mesi il museo d’arte contemporanea Hamburger Bahnhof di Berlino gli rende omaggio con una grande retrospettiva. La prima in Germania a lui dedicata. Si chiama semplicemente “Lee Ufan” e, oltre a ripercorrere la lunga carriera dell’artista asiatico attraverso sessanta opere tra sculture, dipinti e installazioni, lo pone in dialogo con Rembrandt.

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Soprattutto durante il periodo Mono-ha, Ufan, espone rocce, cotone, lastre di metallo, specchi. In alcuni casi fa di più: ad esempio, lasciando cadere una roccia su uno specchio che si frantuma di fronte al pubblico (come una forma di disegno automatico) inserendo la forza di gravità nell’opera, oppure abbandonando tre grandi fogli di carta su una piazza in balia del vento (qui la natura diventa co-autrice del lavoro). L’idea era quella di svuotare le opere dalla presenza dell’artista e far si che l’incontro tra l’oggetto, lo spettatore e il luogo in cui era posizionata l’opera, facessero la magia. In un’intervista ha spiegato: “Come in Francia, dove nel maggio 1968 si verificò una rivoluzione sociale, il Giappone all’epoca stava attraversando una trasformazione sociale. Il modernismo basato sull’idea dell’ego è andato in frantumi. Era ora di cercare una conversazione con l'esterno o con l’altro (…)”. Insomma, parola d’ordine: l’artista e i suoi sentimenti devono sparire. Sempre per questo, Ufan e gli altri del movimento Mono-ha, prediligevano sculture “non fatte”, oggetti prelevati tali e quali dal mondo intorno a loro. Un po’ come Michelangelo Pistoletto, quando cercava di fare entrare il mondo nei suoi “Quadri Specchianti, o comunque altri esponenti dell’Arte Povera da noi. C’è da dire, che, al di là del clima sessantottino, il fatto che il concetto di umiltà sia parte integrante della cultura giapponese, deve aver contribuito non poco allo svilupparsi di questa corrente di pensiero.

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgi 

Anni dopo, Ufan le sue rocce, accostante a semplici forme di metallo (come un arco) messe lì più che altro per enfatizzare le prime (affermando così il prevalere dell’opera della natura su quella dell’uomo), le avrebbe esposte alla Reggia di Versailles.

Lo scorso anno durante la presentazione delle tazzine Illy da lui disegnate, ha detto: “Sono nato in campagna, circondato da una natura selvaggia che mi ha insegnato molto. Ma sono anche figlio della grande città, una lavagna su cui apprendere infinite lezioni. Più ci pensavo, più prendevo coscienza di una verità che non mi ha mai lasciato: non si può prescindere dalla natura e l’universo”.

Lee Ufan, „From Line“, 1977, Kleber und Mineralpigment auf Leinwand, The National Museum of Modern Art, Tokyo © Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023. Foto: Shu Nakagawa

Se le sue rocce sono molto conosciute, forse i dipinti lo sono ancora di più. Per farli concentra tutta sua la sua energia sul pennello che poi applica sulla tela per alcuni minuti, ripete il gesto più volte, sospende per qualche giorno e infine ricomincia. Alla fine quelle che sembrano semplici pennellate sono il risultato perfetto di un lungo processo e della sovrapposizione di più strati di vernice. In passato, con un metodo simile tracciava delle linee parallele che via via che il colore si esauriva, evaporavano nel fondo crema della tela. Usa grandi pennelli quadrati e a volte mischia polvere minerale al colore. Ci mette molto tempo a completare un lavoro, così ogni anno sono pochi i dipinti che escono dal suo studio.

Oltre che un’artista, Ufan durante la sua carriera, è stato un filosofo, un saggista, un critico e un insegnante. Ai suoi studenti diceva sempre di guardare le mani mentre modellavano l’argilla o stringevano la matita. Come fossero altro da loro. Ma anche di controllare le loro reazioni all’ambiente in cui si trovavano.

La mostra di Lee Ufan all’ Hamburger Bahnhof si concluderà il 28 aprile 2014. Per l’occasione "Autoritratto con berretto di velluto" del pittore olandese è stato esposto in una sala del museo d’arte contemporanea (insieme alla scultura dell’artista orientale: "Relatum – La stretta strada del cielo"), mentre al centro della sala Rembrandt della Gemäldegalerie della capitale tedesca c’è un intervento di Ufan.

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart,27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Hamburger Bahnhof – Nationalgalerie der Gegenwart, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

Ausstellungsansicht „Lee Ufan“, Gemäldegalerie, 27.10.2023 – 28.4.2024 © Lee Ufan. Courtesy of Studio Lee Ufan / VG Bild-Kunst, Bonn 2023 / Jacopo La Forgia

A Palazzo Strozzi Anselm Kiefer ha ricongiunto l’arte di oggi a quella del Rinascimento in una mostra imperdibile

L'enorme dipinto “Engelssturz” (“Angelo Caduto”) nel cortile di Palazzo Strozzi-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Quando Palazzo Strozzi ha reso noto che Anselm Kiefer, in occasione della mostra a lui dedicata, avrebbe realizzato un’opera per il cortile rinascimentale dell’edificio, in molti hanno pensato che avrebbe presentato una delle sue torri apparentemente instabili; forse una di quelle fatte di containers o magari di rovine polverose, come già aveva fatto al Pirelli Hangar Bicocca ormai vent’anni fa (lo spazio espositivo milanese celebrerà la ricorrenza il 21 di aprile). Invece no, l’artista tedesco si è cimentato con una enorme tavola, forse una delle più grandi mai completate: un dipinto alto sette metri, talmente sovradimensionato da occupare interamente l’interno del loggiato e svettare fin quasi alle finestre del primo piano (l’opera è stata posizionata con il contributo della Fondazione Hillary Merkus Recordati). Engelssturz” (“Angelo Caduto”), così si chiama il quadro, dà il nome alla mostra, ne illustra il filo conduttore , ed è un monumentale confronto di Kiefer con la pittura del Rinascimento, risolto con un angelo lieve (quasi ineffabile, pure se in parte cupo e rugginoso), dipinto su un cielo piatto e sfavillante di foglia d’oro; che alla base dell’opera, ritrova però, i volumi materici tipici dell’artista, tanto densi che gli abiti vuoti, rigidi sulla superficie pittorica e poi ancora dipinti, a un primo sguardo, neppure si vedono.

“Engelssturz” è, per il momento, anche un’opera pubblica (chiunque per vederla o fotografarla sarà libero di entrare nel cortile di Palazzo Strozzi), per realizzarla, l’artista ha avuto bisogno di osservare lo spazio dall’alto. Questo è successo parecchio tempo fa, dato che Angeli Caduti” (“Fallen Angels”), l’importante personale di Anselm Kiefer che si è inaugurata venerdì scorso a Firenze, ha avuto una gestazione durata sette anni.

Lui, che qui propone vecchi lavori ma anche tante nuove produzioni (in tutto 25 pezzi, per la maggior parte di grandi dimensioni, tra cui una spettacolare e complessa installazione), una volta ha detto: “Lavoro a molti progetti contemporaneamente. Il risultato è simile a un giardino dove crescono molte piante contemporaneamente”.

Alcune opere della serie “Heroische Sinnbilder” (“Simboli Eroici”) in mostra a Firenze-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Una di quelle frasi che probabilmente avranno fatto storcere il naso ai suoi conterranei, che, a momenti gli rimproverano l’aria da austero vate, altre le radici antiche della sua arte, altre ancora l’erudizione. "Solo che noi in questo paese non abbiamo ancora capito bene cosa abbia da proclamare", ha commentato una volta un critico tedesco sul quotidiano Die Welt. Ma probabilmente il fatto è solo che le cose tra Kiefer e la Germania sono cominciate male. Alla fine degli anni ’60, infatti, l’artista presenta la serie “Heroische Sinnbilder (“Simboli Eroici”: titolo rubato a un articolo pubblicato nel ’43 sulla rivista ufficiale delle arti naziste), in cui si fa fotografare in vari luoghi europei (tra cui alcuni occupati dall’esercito) mentre indossa la divisa della Werhmacht del padre e alza il braccio destro in segno di saluto: apriti cielo! L’intenzione dell’artista era quella di spingere provocatoriamente al dialogo i suoi connazionali, esortandoli ad affrontare il rimosso; i tedeschi da parte loro, invece, si sono offesi a morte e non l’hanno mai completamente perdonato. Il ché a conti fatti è bizzarro, visto che Kiefer e la sua arte sono molto germanici.

A Palazzo Strozzi ci sono anche quattro fotografie della serie “Heroische Sinnbilder. Per l’occasione sono state stampate su lastra di piombo, lavorate a simulare degli stendardi, giacchè per lui nessuna opera è mai finita (finchè rimangono nel suo studio continua a lavorarci sopra, così, a volte, un pezzo cominciato negli anni 60 viene presentato in forma rivista nel 2024). E a vederle adesso, lievi sulla distesa argentea della superficie metallica, fanno pensare alla pittura romantica tedesca e a Caspar David Friedrich, con il suo “Viandante sul mare di nebbia”, in particolare. D’altra parte Kiefer è così: un indistricabile gomitolo di colti riferimenti pittorici, letterari, filosofici, poetici, teologici, astronomici, scientifici e persino cabalistici, che trovano inaspettatamente terreno fertile nello stile, nelle tecniche e nel pensiero, del tutto personali, dell’artista.

Una stanza della mostra, in fondo il dipinto con carciofi "Cynara"-“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Kiefer è uno dei massimi artisti viventi- ha detto Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra, Arturo Galansino- e la sua ricerca attinge dalla letteratura, dalla filosofia e dalla storia, in una riflessione continua sulla natura dell’essere umano.

Di fronte all’ospite d’onore di un evento certe frasi sono dovute ma Kiefer è un artista al cospetto del quale la rilevanza del lavoro di chiunque altro si incrina. Uno degli unici due contemporanei esposti al Louvre, l’unico ad aver posato una complessa installazione permanente, pittorica e scultorea, al Pantheon di Parigi (nel 2020 su incarico di Macron in persona). Del resto i francesi lo adorano e lui li ricambia vivendo e operando nel loro Paese (sta a Parigi e ha uno studio di 3mila 300 metri quadri a Croissy-Beaubourg, alle porte della capitale; mentre l’ex fabbrica di seta di Barjac, La Ribaute, sua ex-abitazione-studio nel sud, in cui ha costruito un dedalo di gallerie e percorsi sotterranei, sculture, dipinti e padiglioni, è aperta al pubblico). Pluripremiato (anche dalla Germania con la Croce al Merito) è conosciuto per l’impegno che mette nel lavoro e per l’intransigenza verso un certo tipo di collezionismo e di mercato dell’arte (ad esempio si rifiuta categoricamente di esporre in famose fiere, nonostante sia rappresentato dalla prestigiosa Gagosian Gallery). Anche per questo fa dipinti così grandi (ritenuti dal mercato difficili da vendere e movimentare). Che non sono, oltretutto, per niente facili da portare a termine: Kiefer per dipingere viene issato con un carrello elevatore da cui applica il colore con delle spatole (non usa pennelli), come documentato dal regista Wim Wenders nel film “3D Anselm” (uscito lo scorso anno). Usa i materiali più disparati (piante, terra, vetri rotti, metalli, vestiti, semi, paglia, radici ecc.). Anche se predilige quelli che, in passato, usavano gli alchimisti (come il piombo). In mostra a Palazzo Strozzi c’è persino un dipinto (“Cyrana”, dedicato alla mitologia greca e alla storia della ninfa che respinse Zeus) in cui la foglia d’oro è disseminata di veri carciofi (seccati e dorati). E poi fa esperimenti, una volta ha spiegato: “Non uso colori convenzionali e nemmeno la vernice. Uso le sostanze. Una macchia sbiadita che pare rossa, per esempio è ruggine, semplicemente ruggine.” Dice che vuole estrarre "lo spirito che già vive dentro” i materiali e per farlo sottopone le opere a bagni acidi o si limita a colpirle con asce e bastoni.

Visitatori guardano l'installazione “Vestrahite Bilder”(“Dipinti Irradiati”)- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Una delle stanze più stupefacenti della mostra fiorentina di Kiefer, definita da Galansino “una sala che è un colpo al cuore. (…) un ambiente veramente immersivo”, è quella dedicata all’installazione “Vestrahite Bilder(“Dipinti Irradiati”, 1983-2023), composta da sessanta opere di diverso formato, che sono stati irraggiate con il plutonio.

La distruzione è un mezzo per fare arte- ha detto- Io metto i miei dipinti all’aperto, li metto in una vasca di elettrolisi. La scorsa settimana ho esposto una serie di dipinti che per anni sono stati sottoposti a una sorta di ‘radiazione nucleare’ all’interno di container. Ora soffrono di malattie da radiazione e sono diventati temporaneamente meravigliosi”.

I quadri sono stati disposti l’uno accanto all’altro (come si usava anche nel Rinascimento), ad occupare tutte le pareti e l’intero soffitto, e lasciati nella penombra, mentre uno specchio a pavimento permette di vedere al di sopra della propria testa ma, nello stesso momento, dà l’impressione di precipitare (qui, come sempre succede con Kiefer, i riferimenti sono infiniti a cominciare dal tema dell’angelo caduto e dalla Sindrome di Stendhal, per arrivare alla fragilità della vita e alle catastrofi nucleari nella Storia). L’opera è vibrante e la cornice quattrocentesca dell’edificio, fiduciosa e leggere, la completa, le regala la forza (che in un luogo più cupo o privo di storia non avrebbe) per sostenere le reazioni viscerali del pubblico di fronte a un tale bombardamento di simboli e pittura. D’altra parte è Kiefer stesso a ripetere che l’arte è una questione di equilibrio tra ordine e caos. E poi Palazzo Strozzi, che ha visto per la prima volta a vent’anni nel corso di un viaggio in Italia, è uno dei suoi edifici storici preferiti.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Nato l’8 marzo del ’45 a Donaueschingen (graziosa cittadina tedesca nel circondario della Foresta Nera), che proprio quella notte venne bombardata, Anselm Kiefer, avrebbe potuto morire appena nato se non fosse stato all’ospedale, visto che la loro casa venne abbattuta durante l’attacco. Da bambino giocava con le macerie con cui amava costruire casette e piccoli edifici, aveva anche una memoria straordinaria (ha dichiarato che in quel periodo sapeva a memoria 200 poesie) e leggeva molto (passione che non lo avrebbe mai abbandonato). E’ stato iscritto alla facoltà di Diritto e Lingue Romanze che ha però abbandonato per l’Accademia di Belle Arti di Friburgo in Brisgovia prima e l'Accademia d'Arte di Karlsruhe poi. Oggi è uno degli artisti più stimati al mondo e, almeno secondo una rivista mensile tedesca, anche uno dei più ricchi di Germania (lui dice di no) nonostante le sue quotazioni in asta non raggiungano quelle di altri professionisti (ad esempio, l’inglese David Hockney, l’italiano Maurizio Cattelan, o lo statunitense Jeff Koons), le sue opere sono esposte in un consistente numero di autorevoli musei nel mondo. Ha avuto due mogli e ben cinque figli. Chi lo ha conosciuto di persona, dice che, a dispetto dell’aria ascetica e nonostante la vasta cultura di cui dà prova, sia un tipo scherzoso e relativamente alla mano, oltre ad essere un appassionato di macchine e un guidatore impavido.

Con l’Italia ha un legame consolidato (già nell’80 ha esposto alla Biennale di Venezia, mentre nel ’97 è tornato in laguna in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte per una personale al Museo Correr). Come ha testimoniato la grande mostra tenutasi a Palazzo Ducale di Venezia due anni fa (sempre in concomitanza con la Biennale) e adesso la personale a Palazzo Strozzi. Quest’ultima tuttavia, supera la precedente, perché se nel primo caso Kiefer ha bisticciato con la location per trasformarla in qualcosa di diverso, qui mette in fila le note dominanti della sua poetica modellandole intorno alla melodia degli angeli caduti. Un tema che parla del legame tra divino e terreno ma che fa pure un po' cattivo ragazzo e, anche se in una maniera tortuosa, gli si adatta.

Angeli Caduti” (“Fallen Angels”) la personale di Ansel Kiefer rimarrà a Palazzo Strozzi di Firenze fino al 21 luglio 2024. E’ una mostra assolutamente da non perdere.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

“Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ⓒ Anselm Kiefer.

Arturo Galansino e Anselm Kiefer osservano i particolari di un'opera in mostra- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ludovica Arcero, SayWho.

Ansel Kiefer parla nella stanza in cui è collocata l'installazione "Dipinti Irradiati"- “Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ludovica Arcero, SayWho.