Yan Pei-Ming: “Dipingo direttamente sulla tela. Cerco di domare la pittura”
Di origini cinesi ma naturalizzato francese, Yan Pei-Ming, ha saputo fare tesoro della tradizione pittorica occidentale guardando tanto ai grandi maestri del passato quanto a quelli più recenti. Raccogliendo, tuttavia, nelle sue opere anche riferimenti ai lavori su carta dei classici orientali, ai dipinti astratti e alla Pop Art. Ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo perché Pei-Ming è un professionista tanto scrupoloso quanto curioso, e la sua opera, capace di fondere passato e presente attraverso l’instancabile dedizione al mestiere, tende all’universalità. Dove i formati grandi, anzi mastodontici, delle sue tele, talvolta concepiti come polittici, si sposano alla tavolozza “controllata” (ha per lungo tempo lavorato quasi esclusivamente in bianco e nero o nelle sfumature del rosso, per approdare, in tempi più recenti, a una forma di policromia). E a un numero di pennellate limitato (per raggiungere questo risultato usa pennelli enormi, persino scope).
Spesso riunisce i suoi dipinti in monumentali gruppi, appositamente concepiti, per abbattere il confine che separa le icone collettive dalla dimensione intima (dell’artista e dello spettatore). Utilizzando come soggetti, oltre ai capolavori del passato, anche immagini tratte da riviste, quotidiani e foto di famiglia. In una rilettura, a tratti onirica e dolente, il più delle volte tragica, di quando in quando venata d’ironia, delle immagini e degli eventi che definiscono la contemporaneità e la memoria comune.
La pittura di Yan Pei-Ming è feroce.
Conosciuto per ritratti ed autoritratti ha, di volta in volta, rivisitato anche il genere del paesaggio, della pittura storica, di quella religiosa, della vanitas e la natura morta in genere. Da inizio mese Palazzo Strozzi (Firenze) gli dedica un’ampia personale. La più grande mai tenutasi in Italia con oltre 30 opere, che coprono un piuttosto vasto arco temporale nella sua produzione (dal primo decennio del 2000 fino all’anno in corso). L’esposizione si intitola “Yan Pei-Ming Pittore di Storie” e, in occasione della quale, l’artista donerà un suo autoritratto (Yan Pei-Ming, Autoportrait, 2022) alle Gallerie degli Uffizi. E’ curata dal direttore di Palazzo Strozzi e Presidente della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino. Quest’utimo gli ha fatto una lunga intervista che insieme ad approfondimenti e splendide riproduzioni è stata pubblicata sul catalogo della mostra (edito da Marsilio). Eccone alcuni ampi stralci per voi:
Negli anni Ottanta, quando hai cominciato a lavorare, il figurativo non era molto di moda. Perché hai deciso di continuare a utilizzare questo linguaggio, in un mondo dell’arte che spesso ha intrapreso strade diverse?
Mi è sempre piaciuta la pittura figurativa. Mi permette di esprimermi al meglio. Effettivamente all’epoca non era in voga, ma mi sono rifiutato di seguire la moda. Molto spesso, quando si decide di seguirla, è già passata di moda. Da sempre mi sono impegnato nella pittura figurativa. È con questo linguaggio che mi sento più a mio agio e dunque utilizzo questa forma di espressione.
In che modo le vicende biografiche hanno influenzato il tuo lavoro?
Sono sempre stato interessato ai ritratti di famiglia. Quando ero giovane in Cina, se ero a corto di modelli, potevo sempre chiedere ai membri della mia famiglia di posare per me. È un soggetto piuttosto intimo che mi permette di raccontare un universo familiare attraverso la grandezza della pittura. Dal soggetto della famiglia si può facilmente passare ad altri. Il ritratto è il centro del mio universo.
In che modo i ritratti di Mao hanno avuto un peso nella tua fortuna iniziale?
Sono cresciuto durante la Rivoluzione culturale con il ritratto di Mao Zedong. A quel tempo un’immagine non era mai stata così diffusa. Il soggetto stesso di Mao Zedong è importante: chi conosceva l’artista Yan Pei-Ming da giovane? Nessuno, mentre tutti conoscevano Mao Zedong. I dipinti di Mao Zedong introducono a una lettura contemporanea della Cina. Per me è anche un modo per realizzare ritratti al di fuori della tradizione propagandistica, e molto più personali.
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Dal 1983, dopo il viaggio di istruzione ad Amsterdam, dove hai scoperto gli autoritratti di Rembrandt e Van Gogh, hai smesso di dipingerne e hai ricominciato solo nel 1994. Eri troppo giovane e sei stato sopraffatto dalle loro opere, oppure come spieghi la tua reazione?
Fin da quando ero molto giovane, ho sempre disegnato autoritratti. Quando ho scoperto gli autoritratti di Rembrandt e Van Gogh ero in un periodo in cui dipingevo soprattutto ritratti di persone anonime o scene espressioniste. Non credo di essere stato sopraffatto dalle loro opere, è solo che in quel periodo avevo altri interessi. Volevo anche evitare di realizzare opere troppo figurative.
E i tuoi autoritratti?
L’autoritratto è un soggetto ineludibile e affascinante per tutti i pittori. Dipingere un ritratto di sé stessi significa mettere in gioco l’autostima dell’artista. C’è un lato eterno nell’autoritratto di Rembrandt, Picasso, Van Gogh... Credo che tutti i pittori, me compreso, siano affascinati dagli autoritratti di altri artisti. Direi che rivelano il modo in cui si esprimono.
A cosa ti sei ispirato per l’autoritratto che donerai agli Uffizi e che entrerà a far parte della collezione iniziata nel 1664 dal cardinale Leopoldo de’ Medici? Si tratta della più vasta e importante collezione di autoritratti al mondo, che continua ad accrescersi grazie alle donazioni dei maggiori artisti contemporanei.
È un autoritratto in bianco e nero, frontale. Molti pittori classici si ritraggono di tre quarti, ma io ho scelto di guardare il mondo. Conosco bene le Gallerie degli Uffizi, perché ci sono stato diverse volte. È uno dei musei più belli del mondo. Consegnare un quadro a un museo del genere è un grande onore per un artista vivente. Entro così in una continuità che mi porrà per i secoli a venire nella schiera dei pittori più illustri.
La mostra a Palazzo Strozzi si apre con un tuo autoritratto («Nom d’un chien! Un jour parfait»), ma per la prima volta è affiancato da un oggetto del tuo studio fatto dei resti dei tuoi dipinti, una sorta di autoritratto tridimensionale legato alla matericità del tuo lavoro. Come si è venuto creando nei decenni?
Ho iniziato ad accumulare la vernice nel 1996, con l’idea di lasciare una traccia. Prima di allora gettavo gli avanzi di pittura nella spazzatura. Poi un giorno ho iniziato a riunire gli avanzi su un vecchio carrello di metallo. Dopo qualche anno, la pila stava già diventando piuttosto alta, così ho deciso di ingrandire il carrello. L’ho tagliato al centro e l’ho reso più largo, mantenendo però le vecchie ruote. Poi ho messo al centro un’asta di metallo con molte croci, per sostenere la materia. Questo accadeva più di 25 anni fa. Quello che mi interessa è il tema del tempo: se ci sono così tanti residui di pittura, significa che c’è altrettanta pittura applicata alle tele. Direi che il 3% dei resti di pittura si trova su questa struttura, il 2% sul pavimento e il 95% sulla tela. Questo carrello con i resti di vernice è in un certo senso il mio autoritratto come pittore. È la rappresentazione del tempo che passa. Volevo esporlo già due o tre anni fa, ma non ne ho avuto la possibilità. Palazzo Strozzi è il luogo ideale per esporlo.
Poiché dai tanta importanza ai titoli che scegli, quale il significato di «Nom d’un chien! Un jour parfait»?
L’espressione «Porca miseria!» esprime sorpresa. Un giorno Xavier Douroux, uno dei fondatori di Le Consortium, venne a trovarmi nello studio. Quando ha visto questo lavoro, ha esclamato: «Nom d’un chien!». Immediatamente mi sono detto che avevo il mio titolo. Era molto sorpreso dal dipinto e io ero sorpreso che avesse gridato in quel modo. Poi ho aggiunto «Un giorno perfetto». Quindi il titolo è stato molto spontaneo. Ma quando mi vengono in mente i titoli, possono essere molto variabili: alcuni sono spontanei, altri sono il risultato di una riflessione accurata, altri ancora sono il risultato di una discussione...
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Yan Pei-Ming tra Oriente e Occidente: dragoni, tigri, Bruce Lee e Buddha parlano del tuo mondo ancestrale, ma vivi soprattutto in Occidente e ne hai interiorizzato l’immaginario figurativo e culturale. Ti senti diviso o hai fatto convivere le due realtà?
Sono nato e cresciuto a Shanghai. A venti anni sono arrivato in Francia, dove ho frequentato la scuola d’arte. Questo mi ha permesso di comprendere l’arte occidentale. Quando si vive a Shanghai per venti anni, non si può mai essere completamente sradicati dalla propria cultura cinese. È come se fossi stato «trapiantato» altrove, in Occidente, il che mi rende una commistione tra le due culture, francese e cinese. Ciò che mi interessa di più è l’espressione personale e artistica. Presumo di essere un artista cinese ed europeo, ma sono prima di tutto un artista.
Per la mostra di Palazzo Strozzi hai dipinto un dragone di grande potenza, una figura che nell’immaginario occidentale si associa immediatamente alla mitologia cinese. Qual è il suo significato per te?
Nell’anno del Drago in Cina ci sono sempre più nascite. Tutti i genitori cinesi sperano che i loro figli siano draghi. Simbolicamente, il drago è legato alla figura dell’imperatore e rappresenta saggezza, potere e fortuna. Per Palazzo Strozzi ho dipinto un drago della stessa altezza di un quadro di Bruce Lee: entrambi saranno nella stessa sala. Il nome di battesimo di Bruce Lee in cinese è Li Xiao Long, che significa «il piccolo drago».
Nel 1978 a Shanghai hai visitato la mostra «Paesaggio francese e contadini: la vita rurale in Francia nel XIX secolo, 1820-1905», eri giovanissimo, appena diciottenne. In che modo l’esposizione ha influenzato il tuo lavoro? Eri più interessato ai soggetti o al tipo di pittura?
Quella mostra si è tenuta a Shanghai presso il Palazzo dell’Amicizia sino-sovietico. Ho passato la notte in coda per acquistare il biglietto d’ingresso. Si trattava di una delle prime mostre di dipinti originali francesi in Cina. Tutti gli artisti, studenti e insegnanti delle Accademia d’Arte erano venuti per l’occasione. A quel tempo, la Cina subiva unicamente l’influenza della pittura accademica dell’Unione Sovietica, e per quanto riguarda la pittura francese, avevamo visto solo brutte riproduzioni di dipinti in bianco e nero. La mostra ebbe un grandissimo successo e ha influenzato un gran numero di artisti cinesi, al tempo dell’apertura della Cina da parte di Deng Xiaoping. I soggetti erano molto classici, ma sono state soprattutto le pennellate a commuovermi. Era la prima volta che vedevo dei «tocchi pittorici» nella realtà. Rimasi a lungo ad ammirare i dipinti. A posteriori, credo che questa mostra abbia avuto un’influenza sul mio lavoro, soprattutto perché ha accresciuto il mio interesse e il mio desiderio di andare in Francia.
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Qual è il tuo rapporto con l’Italia? Hai soggiornato a Roma come borsista all’Accademia di Francia a Villa Medici nel 1993-94, poi hai esposto proprio a Villa Medici nel 2016 in una mostra curata da un altro ex borsista di Villa Medici, Henri Loyrette. Sarà stato un momento di grande emozione questo ritorno in grande in un luogo che ti ha visto giovane studente.
Direi che ero un giovane borsista, più che un giovane studente. Quando ero ancora in Cina conoscevo l’Italia solo attraverso il ritratto di Monna Lisa e i dipinti di Michelangelo. Nel 1982, dopo il primo anno di scuola d’arte, ho fatto il mio primo viaggio con un amico: siamo andati a Milano, Pisa, Venezia, Firenze, Roma. Abbiamo visitato musei e dormito in campeggio. A Venezia abbiamo trascorso la notte alla stazione ferroviaria. L’Italia è stata una scoperta fondamentale.
Dieci anni dopo, nel 1993-94, sono tornato in Italia come borsista a Villa Medici, con mia moglie Beatrice e mia figlia di un anno. Questo mi ha permesso di realizzare un’opera monumentale: «Les 108 brigands» (I 108 briganti), costituita da 120 ritratti, tutti realizzati ritraendo dei modelli. È stato un anno di lavoro sul genere del ritratto in cui ho conosciuto meglio Roma, i suoi musei, le sue chiese, i suoi luoghi di cultura e alcuni buoni ristoranti. All’epoca facevo solo ritratti, soprattutto di persone all’interno di Villa Medici. Ritratti di italiani. Quando sono tornato alla Villa nel 2016 per celebrare il 350mo anniversario di Villa Medici, mi sono aperto all’Italia dipingendo quadri legati alla storia del Paese e di Roma: papi, rivisitazioni dei quadri di Caravaggio a San Luigi dei Francesi, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, quadri in omaggio a film come «Mamma Roma» di Pasolini o «Roma città aperta» di Rossellini... È stato un grande piacere per me lavorare con Henri Loyrette. È una figura di spicco nel mondo dell’arte e conosce Roma come le sue tasche. È stato bello fare questo trionfale ritorno in Italia, in questa straordinaria e mitica istituzione nel cuore di Roma.
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Quali altre parti d’Italia hai amato o ti hanno ispirato?
Mi piacciono molto la Toscana e la Lombardia. Visitare i musei mi ha ispirato molto. In effetti, tutte le regioni hanno contribuito all’arte italiana.
Qual è il tuo approccio ai grandi maestri del passato?
Mi sono nutrito di grandi maestri italiani fin da quando ero molto giovane: Caravaggio, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano... Per loro uso la pittura monocroma. Non li affronto sul piano del colore, ma su quello dell’ombra e della luce, del formato, del gesto pittorico. Se mi occupo di soggetti eterni, li affronto in modo contemporaneo, come quando rappresento una crocifissione desunta dal film «Il Vangelo secondo Matteo» di Pasolini.
Con quale criterio scegli le opere che evochi? Empatico? Estetico? Formale?
Mi piacciono i soggetti tragici perché li trovo eterni. L’empatia è un modo per esprimermi nella pittura. I soggetti che scelgo suscitano in me un’emozione immensa, come «Tres de mayo» di Goya. Mi chiedo: come può un uomo fucilare un altro uomo?
E con altri artisti come Bacon? In mostra abbiamo il «Ritratto di papa Innocenzo X» di Velázquez. Ha avuto un peso per te l’ossessione che il dipinto ha rappresentato per Bacon?
Bacon dipinge d’après Velázquez e anch’io dipingo d’après Velázquez. Bacon trasmette un’emozione del dopoguerra: mostra l’angoscia dell’uomo, la tragedia, la deformazione. È una pittura forte sull’immagine, sulla pittoricità, sul colore, sulla deformazione. È uno dei miei pittori preferiti, è inevitabile. Per me è più difficile dipingere d’après Bacon, preferisco dipingere après Velazquez. Sono rimasto affascinato quando ho scoperto i ritratti di papa Innocenzo X: il colore è fantastico. Mi ha ispirato molto e volevo lavorare, come Bacon, d’après Velázquez.
Il potere è al centro del tuo progetto «Game of Power» che comprenderà circa 300 ritratti di personaggi famosi, ma che è stato preannunciato dalla scelta di soggetti affrontati da artisti del passato, come «L’Empereur Napoléon 1er se couronnant lui même» di David o il «Ritratto di Innocenzo X» di Velázquez. Da dove nasce il tuo interesse per il tema?
Fin da quando ero molto giovane, ho sempre realizzato ritratti legati al potere. All’epoca, in Cina, ho iniziato con la pittura di propaganda. «Game of Power» è una serie in evoluzione che svilupperò nel corso degli anni. Potrebbero esserci 300, 400, 500 dipinti... Ne aggiungerò altri ogni anno. Per il resto, scelgo soggetti affrontati da grandi pittori che influenzano, e hanno influenzato, generazioni di pittori (come Velázquez). Ciò che mi interessa, al di là del potere, è piuttosto la storia degli uomini di potere. La storia contemporanea diventa la storia di domani. Per esempio, quando dipingo l’arciduca Francesco Ferdinando, questo quadro evoca l’evento che ha causato la Prima guerra mondiale. La storia è fatta di conflitti ricorrenti.
In molte tue opere parli di funerali. Sono immagini che danno anche una visione fisica della morte, un tema che affronti sia da un’ottica privata (i tuoi genitori, che riesci però a elevare a Storia), sia pubblica, rendendo esplicito il tuo «gusto del tragico». Hai affermato: «La tragedia mi si addice perfettamente». Come convivi con questo mondo interiore?
Il giorno in cui ho capito che la morte era inevitabile, mi sono ribellato violentemente. L’ho capito molto presto, quando avevo circa cinque o sei anni. Le ansie cominciarono a farsi vive di notte, quando ero solo. Per prepararmi ad affrontare un giorno la mia morte, ho iniziato a interessarmi alla morte degli altri e delle persone a me care. Quest’ansia è permanente, a volte mi sfugge e poi ritorna. Ho tanta voglia di vivere. Questo crea un contrasto tra il desiderio di vivere, di essere eterno, pur sapendo che un giorno ci sarà la morte. Credere che la pittura renda eterni mi dà la forza di continuare a dipingere: mi dico che la pittura è eterna e la vita temporanea.
In mostra è esposta una sequenza di opere legate alla storia italiana più drammatica dell’ultimo secolo, riunite quasi in una trilogia: il corpo di Mussolini appeso a testa in giù assieme a quello della sua amante (28 aprile 1945); il ritrovamento del corpo di Pasolini (2 novembre 1975); il ritrovamento del corpo di Aldo Moro (9 maggio 1978). In tutti e tre i casi non è il momento della morte, ma quello in cui l’immagine della morte è stata mostrata al mondo. Spesso rappresenti funerali, ma in questi casi si tratta invece della dimensione «spettacolarizzata» di un evento storico: nessuno si ricorda le esequie pubbliche, mentre queste immagini sono entrate nell’immaginario collettivo.
Le immagini desunte dagli organi di stampa costituiscono una documentazione importante, a volte sono quelle di grandi reporter. Grazie alla pittura a olio l’immagine diventa un quadro. Questo le conferisce una qualità sacra. Quello che mi interessa è lavorare sulla storia, in particolare su quella italiana. Questo ci permette di vedere la forza della pittura. La scala gioca un ruolo importante: lo spettatore può entrare nel quadro, che è realizzato in un formato gigantesco. La morte è la tragedia dell’uomo, non possiamo essere indifferenti.
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Come affronti la storia dell’oggi? In mostra ci sono due trittici (hai utilizzato un formato antico), uno raffigura Vladimir Putin, «Tsar of The New Russia» (2008), a cui hai affiancato più recentemente «Volodymyr Zelensky & The Spirit of Ukraine» (2022). Un pittore oggi affrontando temi politici deve prendere una posizione?
Il trittico «Vladimir Putin, Zar della Nuova Russia» (2008) è stato realizzato quando ho visto una copertina del «Time» del 2007. Ho reagito immediatamente: «Questo è il mio soggetto». A Palazzo Strozzi ci sono due piccole sale. Volevo esporre quest’opera, ma non ne avevo motivo. Quando ho visto Zelensky sulla copertina del «Time» nel 2022, ho capito come le due opere si sarebbero scontrate. L’arte della pittura è già un impegno. Faccio una dichiarazione, mi esprimo nel quadro, lo mostro agli spettatori e poi sta a loro reagire. Piango i nostri tempi e allo stesso tempo sono felice di vivere in questo mondo. Siamo tutti di passaggio, mentre la Terra continuerà a girare.
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Secondo l’oroscopo cinese sei nato sotto il segno del Topo. Hai mai dedicato opere all’animale del tuo o ad altri segni zodiacali cinesi?
Ho già realizzato un dipinto con i topi, ma mai con uno solo. Ne ho dipinti diversi, in una sorta di fogna. I ratti sono sempre in famiglia. Ho dipinto anche altri animali dell’astrologia cinese (Cane, Tigre, Scimmia ecc.). Recentemente ho ridisegnato la «gara dello zodiaco cinese» con i dodici animali, per Hennessy. Il Topo è arrivato primo nella gara indetta da Buddha secondo cui avrebbero dovuto sfidarsi per stabilire l’ordine degli animali dei dodici anni del ciclo lunare. Si trattava di attraversare un fiume, e il Topo, fu il primo.
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Come affronti tecnicamente le tue opere? Il tuo è un gesto ampio, rapido, fatto di pennellate riconoscibili. Come procedi nel tuo lavoro?
Prima ho un’idea, poi dipingo direttamente sulla tela. Tecnicamente, è molto aleatorio. Cerco di domare la pittura. Mi esprimo liberamente: per ogni quadro seguo esigenze e tecniche pittoriche diverse. Nella pittura c’è un’evoluzione a lungo termine, risolvo sempre ogni quadro in modo diverso.
Hai affermato: «La pittura non è una carezza», e la frase è perfettamente comprensibile pensando sia alla vibrante potenza delle tue pennellate, sia ai temi forti e spesso drammatici che affronti: più percosse che gesti affettuosi.
I soggetti drammatici mi interessano sempre. È come quando si guarda un film drammatico: dopo lo spettacolo ci si interroga. Ogni spettatore vuole percepire una sensazione. Per questo dico che «la pittura non è una carezza». L’idea è quella di esprimere, di mostrare un sentimento, una sensazione, attraverso la pittura. «La pittura non è una carezza» significa che mi piace il gusto pungente. Non dipingo mai in salsa agrodolce. Ma l’empatia è sempre nella pittura, anche se il gesto è drammatico, violento.
Perché hai scelto d’ispirarti al quadro di Hubert Lanzinger che raffigura Adolf Hitler come antico guerriero teutonico, simbolo del potere, ma a cui i militari americani in una furia iconoclasta forarono l’occhio, confiscandolo poi e portandolo a Washington, all’United States Army Center of Military History?
Francesco Bonami mi ha mostrato questo quadro di propaganda, che all’epoca mi ha molto colpito e interessato. In seguito ho fatto delle ricerche. Ispirarsi a questo quadro significa ricreare l’epoca dei pittori di propaganda tedeschi. Mostra anche il periodo della Seconda guerra mondiale. Non è un quadro realistico, è più un quadro di propaganda. Quando i soldati americani l’hanno scoperto hanno forato la tela sotto l’occhio. Anch’io volevo dare l’impressione che la tela avesse un buco, mettendo una macchia nera sul volto di Hitler.
Perché hai voluto l’opera nella stessa sala dell’immagine di Mussolini?
È per parlare della Seconda guerra mondiale. Non l’ho vissuta, ma l’abbiamo studiata a scuola, nei documentari, sui libri. Così ho fatto una constatazione: la Seconda guerra mondiale è il disastro della nostra umanità. Spero di non vedere mai, nel corso della mia vita, una terza guerra mondiale. Ho questa consapevolezza che hanno tutti gli esseri viventi: la paura di essere uccisi. Ho tanta voglia di vivere. E che il mondo sia in pace. La nostra generazione tende a credere che non vedremo mai una guerra di questa portata. Faremo di tutto per evitarla.
In che modo ti ha ispirato lavorare a Palazzo Strozzi?
Palazzo Strozzi è un luogo mitico, un riferimento assoluto nel mondo dell’arte contemporanea. Per questa mostra ho creato una dozzina di nuove opere. Ho pensato molto a come muovermi nelle diverse sale di Palazzo Strozzi, guardando il modello, e a come collegare ciascuna delle dieci sale tra loro. © Riproduzione riservata