Tutte le Biennali di Venezia e i ritratti degli artisti fotografati in bianco e nero da Ugo Mulas
Senza mancare mai una Biennale di Venezia, il fotografo Ugo Mulas, cristallizzò e interpretò la scena artistica internazionale di un’epoca. Le Stanze della Fotografia, un nuovo spazio espositivo sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia (nato dalla collaborazione di Marsilio Arte e Fondazione Cini) gli dedica la grande mostra, "Ugo Mulas. L’operazione fotografica". Una delle più complete fino ad oggi.
Realizzata in collaborazione con l’Archivio Mulas, l’esposizione, conta 296 opere, tra le quali 30 immagini mai esposte prima d'ora. Inoltre, sempre per la prima volta vengono presentati al pubblico tantissimi ritratti di artisti e intellettuali (alcuni inediti), tra cui: Alexander Calder, Carla Fracci, Dacia Maraini, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Arnaldo Pomodoro e George Segal,
ll primo incarico come fotografo di Ugo Mulas fu quello di documentare la Biennale di Venezia del ‘54. Da allora, fino alla sua prematura scomparsa nel ‘73, non mancò mai visitarla. Anzi, inventò un modo di raccontarla. In seguito disse: "Fotografavo senza nessuna intenzione di capire cosa stava accadendo, e accadeva sempre qualcosa. Allora si credeva molto a questi avvenimenti, sia io come fotografo che gli artisti stessi che il giro che sta intorno agli artisti, prendevamo sul serio la Biennale in un modo molto genuino, come una gran festa per tutti: il piacere di andare a Venezia, che non era indifferente, il piacere di incontrare gente nuova, di vedere cose nuove, di assistere a qualcosa di veramente importante. Il mio lavoro consisteva nel cercare di dare un’idea di questa festa. (…)"
Proprio lì, nel ‘64, conobbe la Pop Art e il gallerista Leo Castelli, che gli avrebbe permesso di ritrarre il fermento della scena artistica americana di quegli anni e tutti i suoi grandi protagonisti (Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg, Frank Stella, Kenneth Noland e naturalmente Andy Warhol). Caro amico dello scultore statunitense Alexander Calder, fortografò tutti gli artisti della sua epoca (da un Duchamp oramai anziano a un non più giovane Mirò, fino a Lucio Fontana, Christo e Louise Nevelson). Non sfuggirono al suo obbiettivo neppure intellettuali, poeti, scrittori, stilisti, attori e imprenditori, ma per le arti visive aveva un debole
Forse perchè fu a sua volta un artista.
"Gli occhi- ha scritto nel '73- questo magico punto di incontro fra noi e il mondo, non si trovano più a fare i conti con questo mondo, con la realtà, con la natura: vediamo sempre di più con gli occhi degli altri. Potrebbe essere anche un vantaggio ma non è così semplice. Di queste migliaia di occhi, pochi, pochissimi seguono un’operazione mentale autonoma, una propria ricerca, una propria visione."
Lui lo faceva, come dimostra la serie “Verifiche” (1968-’72), in cui Mulas si interroga sulla fotografia. Queste opere aprono la mostra, il cui titolo prende spunto proprio da una di loro. Si tratta di "L'operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander", in cui l’artista compare su un piccolo specchio con il volto coperto dalla macchina fotografica, mentre la sua ombra fa da sfondo. La composizione, solida e semplice, sorregge il filo della riflessione di Mulas, che ci dice che la fotografia non può essere asettica o imparziale, ma è anzi un gioco di sguardi, visioni e volontà, tra il soggetto, l’autore e l’osservatore.
Ancora più interessante, è il modo in cui il fotografo originario di Pozzolengo (Brescia), decise di dare forma all’immagine di Marcel Duchamp prima e di Lucio Fontana al lavoro nel suo studio, poi. D’altra parte, Mulas, ammirava Duchamp e lo considerava (insieme a Man Ray) uno spartiacque nell’arte del ‘900. E con Fontana aveva lavorato spesso. "Le fotografie di Duchamp – spiegò Mulas – vorrebbero essere qualcosa di più di una serie di ritratti più o meno riusciti, sono anzi il tentativo di rendere visivamente l'atteggiamento mentale di Duchamp rispetto alla propria opera, atteggiamento che si concretizzò in anni di silenzio, in un rifiuto del fare che è un modo nuovo di fare, di continuare un discorso".
Con Fontana fa più o meno la stessa cosa. Fotografa i rituali dell’artista che preludevano all’opera ma simula la realizzazione del lavoro vero e proprio. Fontana, infatti, gli aveva detto: "Se mi riprendi mentre faccio un quadro di buchi dopo un po’ non avverto più la tua presenza e il mio lavoro procede tranquillo, ma non potrei fare uno di questi grandi tagli mentre qualcuno si muove intorno a me. Sento che se faccio un taglio, così, tanto per far la foto, sicuramente non viene... magari, potrebbe anche riuscire, ma non mi va di fare questa cosa alla presenza di un fotografo, o di chiunque altro. Ho bisogno di molta concentrazione. Cioè̀ non è che entro in studio, mi levo la giacca, e trac! faccio tre o quattro tagli. No, a volte la tela la lascio lì appesa per delle settimane prima di essere sicuro di cosa ne farò, e solo quando mi sento sicuro, parto, ed è raro che sciupi una tela; devo proprio sentirmi in forma per fare queste cose".
Queste parole anzichè diminuire l’interesse di Mulas, gli avevano suggerito una via diversa. “Di Lucio Fontana ero amico- dirà Mulas anni dopo - come lo eravamo tutti qui a Milano, uno dei tanti suoi amici. Tranne alcuni servizi per le Biennali, ho lavorato per lui sempre senza che me lo chiedesse (...) Di tutte le fotografie, soltanto una serie – praticamente fatta nel giro di mezz’ora – ha un senso preciso. Fino a quel momento l’avevo fotografato e basta, ora volevo finalmente riuscire a capire che cosa facesse. Forse fu la presenza di un quadro bianco, grande con un solo taglio, appena finito. Quel quadro mi fece capire l’operazione mentale di Fontana (che si risolveva praticamente in un attimo, nel gesto di tagliare la tela) era assai più complessa e il gesto conclusivo non la rivelava che in parte (...)"
Fondamentali saranno anche le fotografie che scatterà agli artisti pop a New York, e pubblicherà in un libro nel ‘63. "Avevo già fotografato degli artisti- ha detto in proposito- per esempio Severini, per esempio Carrà, ma mi era sembrato di fotografare dei superstiti. Se mai, avrei voluto fotografarli nel 1910, nel 1912: allora avrebbe avuto un senso, mentre adesso non facevo che registrare la loro sopravvivenza fisica come personaggi".
D’altra parte di ritratti, più o meno capaci di trasmettere il senso dell’opera e del lavoro di ognuno, Mulas ne fece tantissimi. Ma fotografò anche paesaggi, a cominciare da quelli della Milano post-bellica dei primissimi anni ‘50, fino a Venezia, alla Russia, a Parigi, alla Germania, a Copenaghen, alla Sicilia, alla Calabria e a Vienna.