In Svizzera dopo vent’anni la grande fotografia di Jeff Wall, che cita la pittura e rivendica il diritto di artefare la spontanea bizzarria della quotidianità
Figura cardine della ricerca artistica contemporanea attraverso la fotografia, capace di fondere all’immagine elementi che richiamano altre discipline (come pittura, cinema, e teatro), il canadese Jeff Wall, sarà protagonista di un’importante mostra personale alla Fondazione Beyeler di Riehen. L’esposizione, che inaugurerà la programmazione 2024 del museo progettato da Renzo Piano nei pressi di Basilea, è la prima in Svizzera dopo quasi vent’anni per Wall e sarà composta da 50 opere (quasi tutte di grande formato). Arrotondando, si potrebbe dire: una per ogni anno di carriera dell’artista.
Nato nel ’46 a Vancouver, Jeff Wall infatti, si dedica all’arte fin dagli anni ’60 quando, studente alla Università della British Columbia, produce dei lavori concettuali pittorici. Ma poi smette, per ritornare con quello che sarebbe diventato il suo stile distintivo (fotografia a stampa lucida montata su light box) solo nel ’77, dopo un viaggio in Europa in cui vede molti musei e nota dei cartelloni pubblicitari illuminati. L’idea di usare le insegne luminose, che ai tempi cominciavano a rafforzare l’impatto delle foto pubblicitarie, gli viene allora. E si rivelerà una scelta vincente: con quelle grandi immagini retroilluminate, Wall, interpreta lo spirito del tempo e porta per mano l’arte verso un periodo storico diverso. Ovviamente non finisce lì, perchè Jeff Wall, fin dal principio, si distacca dalla fotografia come documentazione del reale, anzi mette proprio in discussione l’assioma secondo il quale sia fatta per cogliere l’attimo. E infarcisce le sue immagine di riferimenti alla pittura (nella composizione, nei colori, nel modo in cui cade la luce), basti pensare che esordisce con “The Destroyed Room” (1978), un groviglio di indumenti ammassati e materassi lacerati, ispirato a “La morte di Sardanapalo” di Eugène Delacroix. Poi verranno i cenni alla letteratura, al teatro e, naturalmente, al cinema (cui tutte e sue emblematiche immagini si legano come singoli fotogrammi di narrazioni che ci sono precluse).
Con le sue immagini che rivendicano il diritto di essere belle, poetiche, colte e persino garbatamente bizzarre, Jeff Wall diventerà un punto di riferimento per gli artisti della Scuola di Düsseldorf e insieme a uno di loro (Andreas Gursky) e a Cindy Sherman sarà uno degli artisti che usano la fotografia più costosi mai battuti in asta.
Il suo lavoro ha sempre richiesto tempo, attori e non ha disdegnato la tecnologia per raggiungere il risultato desiderato. Non a caso una delle sue opere più conosciute è “A Sudden Gust of Wind (after Hokusai)”(1993), che ricrea al giorno d’oggi, con la fotografia, nelle pianure nei pressi di Vancouver, la xilografia giapponese ottocentesca, “Stazione Yejiri, Provincia di Suruga” di Hokusai, ha richiesto più di un anno per scattare le 100 immagini idonee a “ottenere un montaggio senza soluzione di continuità che dia l'illusione di catturare un momento reale."
Il rifiuto di Wall a condannare la fotografia alla mortalità consegnandola allo scorrere del tempo è fermo, anche nella sua seconda linea di ricerca, quella in cui costruisce scene della quotidianità (un ragazzo disegna dei motivi sulla sua maschera con un pennarello, un uomo sorregge dei pesi, una bimba si butta per terra sul marciapiede ecc.) apparentemente rubate in giro per le strade, con prove attori e post-produzione.
In un’intervista ha detto a proposito della fotografia: “Stiamo ancora scoprendo cosa sia questa miscela di realtà, reportage, performance, ricostruzione e composizione come forma d’arte”