I paesaggi sconfinati, silenziosi e indifferenti di Jessie Homer French. Da vedere nell'ultimo fine settimana di Biennale

Jessie Homer French, Winter Eden, Chernobyl, 2018 Oil on canvas 55.88 × 71.12 cm Collection Judi Roaman and Carla Chammas All works with the additional support of VARIOUS SMALL FIRES, Los Angeles; MASSIMODECARLO 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi

Il silenzio dei dipinti di Jessie Homer French è vigile. Mentre la realtà luccica fendendo come una lama i paesaggi onirici. C’è la morte. Ma non c’è dolore. Anzi un soffuso senso di tenerezza, d’affetto, per una natura dalla bellezza nitida e umilmente maestosa. Per un cimitero in cui pascolano i cervi. Che diventa paesaggio. In lontananza magari il fumo, pronto a mutare in un incendio vigorosono nella prossima tela. O a continuare ad alzarsi silenzioso. stregato, come il resto della composizione, dall’indifferenza che possiede la scena.

Nata a New York, Jessie Homer French, è partita presto. Sognava l’Ovest, la sua luce, i paesaggi piatti e sconfinati. Così, insieme al marito ha percorso la route 66; Jack Kerouac sarebbe morto 10 anni dopo, ma a lei l’ West faceva pensare alle novelle avventurose di Zane Grey. E se ne innamorò.

La coppia concluse il viaggio a Los Angeles e lì rimase per parecchi anni. Adesso però, Homer French vive in un posto sperduto in mezzo alla natura, proprio ai confini con il deserto (Mountain Center, nelle San Jacinto Mountains), dove trova continui spunti per i suoi quadri. Opere ricche di particolari, che l’artista dipinge con precisione sulle ampie campiture che delineano gli orizzonti sconfinati, con semplicità e mano ferma, come fossero decorazioni. D’altra parte, Homer French, è autodidatta e il suo stile, che ha perfezionato dagli anni ‘60 fino ad oggi, è vagamente ispirato ai fumetti. Adesso ha 82 anni ed è nella scuderia di Massimmo de Carlo (che nel 2021 le ha dedicato una mostra nella sua sede londinese), alcune tra le sue opere sono state collocate in collezioni importanti come quella dello Smithsonian, mentre sei tele sono volate a Venezia, per partecipare alla 59esima Esposizione Internazionale d’Arte, Il Latte dei Sogni. Dove la curatrice, Cecilia Alemani, le ha riservato un posto all’inizio del percorso in Arsenale.

Jessie Homer French, non sempre ma spesso, affronta temi come le catastrofi ambientali. Un argomento in grado di attualizzare dipinti altrimenti atemporali. E poi le composizioni di Homer French, si reggono sempre su un contrasto che spiazza l’osservatore. Sia esso l’incendio su una piattaforma petrolifera, mentre i pesci a branchi nutano tranquilli nell’acqua cristallina, o un funerale dove la bara del defunto è talmente coperta di fiori da diventare il punto focale del quadro, quello dove le decorazioni e i colori appagano lo sguardo. Nonostante l’artista sembri farci vedere le scene che registra in modo obbiettivo, le immagini davanti ai nostri occhi hanno un sapore surreale, un’atmosfera onirica che possiede le tele e sembra sottrarle allo scorrere del tempo.

"Credo che i paesaggi si imprimano nelle persone- ha detto l'artista in un'intervista a Repubblica- È un processo lento che richiede tempo, a volte anni. Per esempio sto capendo solo ora come dipingere il deserto. È difficile adattarsi a un nuovo ambiente fisico a tutti i livelli, e imparare a dipingerlo è ancora più difficile".

Alla Biennale di Venezia sono esposte sei tele di Jessie Homer French. Ci sono cimiteri immersi nella natura (con i morti rappresentati come fossero addormentati sotto terra), catastrofi ambientali e il deserto sconfinato. Ma per vedere i paesaggi dipinti dall’artista californiana (e molto altro, ovviamente) resta tempo solo fino a domenica prossima.

Jessie Homer French, Mojave Stealth Bombers, 2013 Oil on canvas 33 × 123 × 4 cm Private Collection All works with the additional support of VARIOUS SMALL FIRES, Los Angeles; MASSIMODECARLO 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi

Jessie Homer French, Installation View All works with the additional support of VARIOUS SMALL FIRES, Los Angeles; MASSIMODECARLO 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi

Jessie Homer French, Installation View All works with the additional support of VARIOUS SMALL FIRES, Los Angeles; MASSIMODECARLO 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi

Jessie Homer French, Installation View All works with the additional support of VARIOUS SMALL FIRES, Los Angeles; MASSIMODECARLO 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi

Jessie Homer French, Installation View All works with the additional support of VARIOUS SMALL FIRES, Los Angeles; MASSIMODECARLO 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi

La pittura malinconica e surreale dell'afroamericano Noah Davis vola in asta

Noah Davis, The Conductor, 2014 Oil on canvas 175.3 × 193 cm The Estate of Noah Davis All works with the additional support of David Zwirner 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Scomparso nel 2015 a soli 32 anni, il pittore afroamericano Noah Davis, in mostra a Venezia durante gli ultimi giorni d’apertura della 59. Esposizione Internazionale d’Arte- Il latte dei sogni, è stato uno dei protagonisti dell’asta tenutasi da Christie’s a New York la settimana scorsa. Il suo olio su tela, Congo #7, infatti, è stato aggiudicto per un milione e mezzo di dollari, superando la stima massima attribuitagli di 300 mila dollari. D’altra parte, tutti gli afroamericani sono andati a gonfie vele, con la nigeriana che vive a Los Angeles, Njideka Akunyii Crosby, arrivata alla bella cifra di 4 milooni e 700 mila dollari per un dipinto.

Noah Davis, figlio di un avvocato ed una educatrice, cominciò a dipingere con impegno fin dalla prima adolescenza, tanto che pare avesse già uno studio a soli 17 anni. Nel 2012, insieme alla moglie, la scultrice Karon Davis e al fratello Kahlil Joseph (artista a sua volta), ha fondato l’Underground Museum, nel quartiere storicamente popolare afroamericano e latinoamericano di Arlington Heights, a Los Angeles. L’idea era di portare l’arte dei musei ad una comunità che, in linea di massima, nei musei non metteva piede. Davis tuttavia, colpito da una rara forma di tumore ai tessuti molli, morirà solo tre anni dopo, senza avere il tempo di apprezzare i risultati del suo progetto.

Il successo della sua opera ha fatto, invece, in tempo a intravederlo. Sfumato forse, come una delle figure al centro dei suoi dipinti. Sempre sospese, tra realtà, ricordi e universi onirici.

"Richiamando- scrive di lui Ian Wallace sul sito della Biennale di Venezia- una generazione precedente di artisti americani, come Fairfield Porter, Jacob Lawrence e Palmer Hayden, la sua opera è parimenti influenzata dalla figurazione di Marlene Dumas e Luc Tuymans".

Ma il lavoro di Noah Davis, ricorda anche altri artisti. Per esempio, Francis Bacon, di cui però gli manca la rabbia lacerante. Al centro della pittura di Davis spesso ci sono momenti atemporali, sospesi. L’inquietudine può far sentire il suo respiro ma non è mai al centro dell’istante ritratto o della storia tratteggita. Spesso c’è anche un soffio di amara ironia, come in: 40 Acres and a Unicorn (2007). Il titolo si riferisce ai “quaranta acri e un mulo” che si diceva sarebbero stati dati alle famiglie degli schiavi liberati alla fine della Guerra civile americana. "con l’ironia del Realismo Magico, evoca l’amara delusione di fronte agli sforzi del governo statunitense volti a fornire manodopera salariata alle piantagioni piuttosto che ai diritto dei neri".

Più spesso però, nelle sue storie, inumidite di malinconia o ferite dai toni scuri della tavolozza, a colpire è l’atmosfera surreale. Come quando, in Isis, la moglie di Davis, vestita con un costume dorato, con ai lati due grandi ventagli simili ad ali, si trasforma nella dea egizia della magia. O in The Conductor, un uomo in smoking. in ecquilibrio su una sedia, dirige un’orchestra invisibile. Nulla di tutto ciò in Congo #7, dove i pensieri dei tre giovani protagonisti riempiono la scena, retta da una composizione rigorosa e da una tavolozza dai pochi colori ma studiata con attenzione.

Le atmosfere surreali della pittura solida e ricercata di Noah Davis, si potranno vedere all’Arsenale, fino alla conclusione della Biennale di Venezia (il 27 novembre), ormai arrivata al rush finale.

Noah Davis « Congo #7» (particolare). Immagine: screenshot da video

Noah Davis, The Future’s Future, 2010 Oil on canvas 152.4 × 188 cm Private Collection All works with the additional support of David Zwirner 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Noah Davis, Installation view. All works with the additional support of David Zwirner 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Noah Davis, Installation view. All works with the additional support of David Zwirner 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams Photo by: Roberto Marossi Courtesy: La Biennale di Venezia

Subodh Gupta ha costruito un ristorante con vecchie pentole indiane nel parco di un hotel di Venezia

Subodh Gupta, Cooking The World, 2017; utensili in alluminio, acciaio, cavo, legno, cucina dimensioni variabili Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Photo by: @ Agostino Osio - Alto piano

L’artista indiano Subodh Gupta, ha costruito una gaziosa casetta con centinaia di vecchi utensili da cucina metallici. L’opera si intitola “Cooking the world” ed è la nuova versione di un lavoro del 2017. Composta di pentole, padelle, piatti, secchi e quant’altro, fissati tra loro, l’installazione è stata un ristorante aperto al pubblico, durante la settimana in cui ha inaugurato la Biennale di Venezia. Il cuoco era l’artista.

La settimana scorsa si è conclusa l’esposizione di Cooking the World di Subodh Gupta all’interno dei giardini Casanova del Cipriani Belmond Hotel di Venezia. La mostra, faceva parte della serie di eventi Mitico, organizzata da Galleria Continua in collaborazione con il gruppo Belmond. E si è tenuta durante i mesi di apertura della 59esima Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia, Il Latte dei sogni (dal 23 Aprile al 19 Novembre 2022). Durante la prima settimana, Gupta, ogni sera ha cucinato all’interno della scultura per un gruppo di persone.

Nato povero nell’India rurale degli anni ‘60, Subodh Gupta, ha avuto una carriera che si potrebbe definire motivante. Dopo gli studi e un periodo di relativa incertezza, ha raggiunto il successo internazionale all’inizio dei primi anni 2000. Adesso vive nei pressi di Delhi ed è un artista famoso e influente.

L’aspetto più noto della sua opera è il frequente uso massivo di oggetti della quotidianità indiana, come: le scatole tiffin in acciaio (usate per portare il pranzo), i piatti thali, le biciclette e i secchi per il latte. Gupta li considera simboli della trasformanzione economica del suo Paese ed allo stesso tempo della sua intima immutabilità. Ma anche oggetti rituali e custodi di memoria.

"Sono un ladro di idoli- ha detto tempo fa- Rubo dal dramma della vita indù. E dalla cucina, queste pentole, sono come dei rubati, contrabbandati fuori dal paese. Le cucine indù sono importanti quanto le sale di preghiera".

“Cooking the world” è un opera composta da una performance e da un’installazione, presentata nel 2017. Nella parte scultorea c’erano utensili da cucina appesi al soffitto attraverso fili sottili. Ma il cuore del lavoro era performativo: l’artista che cucinava per gli spettatori diventati ospiti e faceva conversazione con loro. Alla base dell’opera, l’idea che preparare e condividere cibo sia un simbolo transculturale di intimità, amicizia, vicinanza.

Nella nuova versione, l’installazione abbandona la libertà di quella

precendete e diventa emblema a sua volta. Ha la forma di una casa, che già di per se evoca: sicurezza, riparo, famiglia. Mentre gli utensili di cui è composta, pur ammassati l’uno all’altro, somigliano ad una volta celeste. Ed evocano lo scorrere del tempo, il caso e le esperienze passate.

Cooking the world” non è più a Venezia, ma altre opere di Subodh Gupta saranno in mostra nello spazio espositivo, Les Moulins, di Galleria Continua a Boissy-le-Châtel, fino alla vigilia di Natale. Bharti Kher, moglie di Gupta ed artista famosa a sua volta, invece, in questo periodo espone una scultura al Central Park di New York

Subodh Gupta, Cooking The World, 2017; utensili in alluminio, acciaio, cavo, legno, cucina dimensioni variabili Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Photo by: Marco Valmarana

Subodh Gupta, Cooking The World, 2017; utensili in alluminio, acciaio, cavo, legno, cucina dimensioni variabili Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Photo by: Marco Valmarana

Subodh Gupta, Cooking The World, 2017; utensili in alluminio, acciaio, cavo, legno, cucina dimensioni variabili Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Photo by: Marco Valmarana

Subodh Gupta, Cooking The World, 2017; utensili in alluminio, acciaio, cavo, legno, cucina dimensioni variabili Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Photo by: Marco Valmarana

Subodh Gupta, Cooking The World, 2017; utensili in alluminio, acciaio, cavo, legno, cucina dimensioni variabili Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Photo by: Marco Valmarana

Subodh Gupta, Cooking The World, 2017; utensili in alluminio, acciaio, cavo, legno, cucina dimensioni variabili Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA Photo by: Marco Valmarana