Le sculture biomorfe di Ranjani Shettar nell’oasi tropicale del Barbican Conservatory di Londra

Ranjani Shettar, In the thick of the twilight, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery.

Per lo più ispirate alle piante, anche se astratte, le grandi sculture sospese dell’artista indiana Ranjani Shettar, mixano materiali industriali e completamente naturali che lei lavora con tenacia, seguendo antichi e desueti metodi artigianali indiani. Nel 2018, ad esempio, ha realizzato una grande opera per il Metropolitan Museum di New York, saldando e modellando la base in acciaio inossidabile del lavoro, colorando la mussola, per poi legare il tessuto all’armatura metallica con pasta di tamarindo: ha detto che questa tecnica l’ha rubata ai fabbricanti di bambole di una piccola città nel sud dell’India.

Da alcuni mesi Ranjani Shettar ha inaugurato una mostra nell’oasi tropicale in stile brutalista del Barbican Conservatory di Londra. Una superficie enorme in cui, tra percorsi labirintici e muri in cemento armato, prosperano ben mille e 500 specie di alberi e piante provenienti da tutto il mondo e che ogni anno accoglie un milione e mezzo di visitatori. L’esposizione, commissionata dal Barbican, si intitola “Cloud Songs on the Horizon” ed è il primo grande show istituzionale dedicato all’artista indiana in Europa. Particolarmente adatto per il tema delle opere, ad una visita primaverile.

Nata nel ’77 a Bangalore, Shettar tuttavia, ha già ricevuto premi e riconoscimenti importanti sia nel suo Paese che negli Stati Uniti. Le sue opere fanno tra l’altro parte delle collezioni permanenti del Met e del MoMA di New York, oltre che del Kiran Nadar Museum of Art di Delhi. La commissione per il Barbican Conservatory, infatti, è stata frutto della collaborazione con quest’ultimo.

Di Shettar, la fondatrice e presidente dell’enorme polo culturale indiano (100mila metri quadri), Kiran Nadar (moglie del miliardario Shiv Nadar, che condivide con lei una collezione faraonica di oltre 6mila opere d’arte), ha detto: “La pratica di Ranjani Shettar è stata di particolare interesse per il Kiran Nadar Museum of Art (KNMA) da quando abbiamo acquisito e installato per la prima volta il suo lavoro al museo nel 2011. Abbiamo osservato da vicino la sua evoluzione artistica che unisce una rara sensibilità ad un lavoro paziente. Il progetto avviato presso il Barbican Conservatory è ben allineato con i nostri sforzi di collaborazione volti a portare visibilità e attenzione critica all’enorme talento degli artisti indiani e dell’Asia meridionale in tutto il mondo”.

Ranjani Shettar per il giardino tropicale londinese ha creato cinque sculture sospese, che ricordano fiori di plumeria ed heliconia, ma anche boccioli, semi, foglie secche, cellule e forme di vita microscopica (ma restituite in grande scala). Tra loro anche un tronco di legno di teak di recupero, modellato fino a trasformarsi in qualcosa di strettamente connesso con la natura ma in qualche modo enigmatico. Il lavoro di Shettar trae ispirazione dal paesaggio per mettere in scena forme astratte biomorfe, che a momenti lasciano intravedere un legame con la maniera di rappresentare degli antichi maestri indiani, e a volte si tingono di una sfumatura vagamente fantascientifica o semplicemente inquietante. Sarà forse per la larga scala dei suoi interventi. In genere, però, a prevalere è una sensazione di ingenua meraviglia, che l’artista sottolinea con un’illuminazione drammatica capace di rendere l’insieme delle opere simile a un cielo stellato o allo spettacolo che si può godere nel subcontinente durante il Diwali (la festa della luce).

Cloud Songs on the Horizon” di Ranjani Shettar rimarrà al Barbican Conservatory di Londra fino a luglio 2024 (si tratta anche di un evento gratuito, perciò, i biglietti vanno prenotati con largo anticipo).

Ranjani Shettar, Cloud songs on the horizon, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery

Ranjani Shettar, Cloud songs on the horizon, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar, Talwar Gallery, New York | New Delhi © Ranjani Shettar, Talwar Gallery

Ranjani Shettar, On the Wings of Crescent Moons, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songon the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery

Ranjani Shettar, Above the crest, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery

Ranjani Shettar, Moon dancers, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery.

Ranjani Shettar, Cloud songs on the horizon, 2023 (detail) Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar, Talwar Gallery, New York | New Delhi © Ranjani Shettar, Talwar Gallery

Ranjani Shettar, In the thick of the twilight, 2023. Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songs on the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar © Max Colson, Barbican Art Gallery.

Ranjani Shettar, Cloud songs on the horizon, 2023 (detail) Installation view of Ranjani Shettar: Cloud songson the horizon, Barbican Conservatory 2023. Courtesy Barbican Centre, KNMA, Ranjani Shettar, Talwar Gallery, New York | New Delhi © Ranjani Shettar, Talwar Gallery

“The Evidence of Things Not Seen” la più grande mostra di Carrie Mae Weems in Svizzera, ancora per poco a Basilea

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Una donna e una bambina siedono al tavolo della cucina, la luce cade dall’alto, il lampadario a forma di cono ricorda il chiarore emanato da un occhio di bue, entrambe le protagoniste si mettono il rossetto con movimenti speculari. “Woman and Daughter with Make Up” parte di “Kitchen Table”, la serie più famosa dell’artista statunitense Carrie Mae Weems, è probabilmente una delle immagini più belle della storia dell’arte recente. Nella sua finta spontaneità, la fotografia in bianco e nero costruita con attenzione da Weems (che qui è sia autrice che modella), parla di costrutti sociali che incidono sul sé, unione e separazione, vicinanza e solitudine, identità di genere, presente e futuro.

Ho sempre avuto un esercizio di autoritratto nelle mie lezioni- ha detto Weems che, nel tempo. ha insegnato fotografia in varie università degli Stati Uniti -Invariabilmente, tutte le studentesse erano in qualche modo coperte (…) Facevano sempre qualcosa per oscurare la chiara visione di se stesse. Perché le donne sono sempre state interessate ad essere oggetti, perché siamo state addestrate ad essere oggetti (…)”.

Questa immagine, insieme alle altre che costituiscono la serie “Kitchen Table”, fa parte della vasta retrospettiva “The Evidence of Things Not Seen” che il Kunstmuseum Basel (il museo d’arte contemporanea di Basilea) ha dedicato a Carrie Mae Weems: la prima artista afroamericana invitata a fare una personale al Guggenheim di New York (2012), la prima donna di colore a vincere il prestigioso premio internazionale di fotografia Hasselblad Award (2023). D’altra parte la mostra, la più grande che la Svizzera le abbia mai tributato, che si basa su altre esposizioni simili che dal 2022 si sono tenute in alcuni musei europei (Württembergischer Kunstverein di Stoccarda, Fundación MAPFRE e Fundación Foto Colectania di Barcellona, Barbican Centre di Londra), mette in fila ben trentacinque anni di lavoro dell’artista, attraverso un corpus di opere notevole: video, installazioni, testi e naturalmente fotografie.

Untitled (Eating Lobster), The Kitchen Table Series, Carrie Mae Weems, 1990/1999. Silver gelatin print,104.7 x 104.7 x 5.7 cm © bei der Künstlerin / the artist Courtesy of the artist and Gladstone Gallery

Il mezzo che Weems ama di più: “Credo- ha detto una volta- che la prima volta che ho preso in mano quella macchina fotografica, ho pensato: 'Oh, OK, questo è il mio strumento. Questo è tutto'” Allora, Weems aveva vent’anni e la macchina gliela aveva regalata il suo ragazzo dell’epoca: da quel momento in avanti Weems non avrebbe più smesso di fotografare. All’inizio concentrandosi su quello che meglio conosceva e sulla documentazione della realtà: dedica una serie alla vita nella sua città (“Environmental Profits” del ’78) e una ai rapporti tra lei i suoi familiari ed amici (“Family Pictures and Stories”, anche questa cominciata nel ’78 ma finita cinque anni dopo). Per poi capire che per lei fare fotografie significava anche mettere in scena. Talvolta in maniera ricercata, con soggetti che emergono dal buio dello sfondo, a cui sembrano voler ritornare da un momento all’altro, senza, tuttavia mostrarsi mai al mondo. E’ il caso della serie “The Louisiana Project” in cui le maschere che occultano le persone diventano modi per esprimere commenti sulla razza, filtri tra se e gli altri, dimostrando contemporaneamente, in maniera distorta, la propria identità senza però mai dimenticare lo sguardo altrui.

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Del resto Carrie Mae Weems, nata nel ’53 a Portland in Oregon, durante il periodo della sua formazione ha studiato folklore all’Università della California di Berkeley, ed è naturale che abbia finito per affrontare il tema delle maschere e della teatralità. Nell’opera di Weems, ad ogni modo, l’ingiustizia, la maniera in cui la società rimodella l’identità sulla base della razza e del genere, sono argomenti che tornano costantemente, e non fa eccezione “The Louisiana Project” (così come le altre create dall’artista). In un’intervista, lei ha spiegato: “Da giovanissima ero già un esistenzialista. Quando avevo otto anni uscivo dai gradini di casa mia e guardando il cielo mi chiedevo perché eravamo qui in questo posto e quale sarebbe stato il mio ruolo nella vita. Mi interessavano la politica e la giustizia sociale. Cosa significava vivere una vita aperta e libera? Quali erano i problemi profondi dell’umanità che insistevano sul fatto che il ruolo del potere fosse quello di sottomettere gli altri? Qual è la voce dei soggiogati, degli oppressi, degli abbattuti e dei terrorizzati, e come si esprime quella voce? Tutto questo mi ha interessato molto presto, ma allora non sapevo come esprimerlo (…)

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Weems naturalmente ha particolarmente a cuore i diritti degli afroamericani. A Basilea tra le opere in mostra c’è persino un’installazione (“Land of Broken Dreams: A Case Study” del 2021) in cui sono stati esposti veri cimeli del Black Panther Party, mischiati a riviste degli anni ’60-’70 in cui sono documentate violenze verso i neri. Senza contare le fotografie che ha scattato nella sua città natale dopo l’assassinio di George Floyd: qui Weems ha immortalato particolari di vetrine murate e graffiti cancellati, più e più volte, fino a costruire un lirico omaggio alla pittura dimenticata degli espressionisti astratti americani di colore.

Preservare la memoria di attrici e cantanti afroamericane del passato è invece stato il pensiero alla base del gruppo di immagini sfocate a loro dedicate, in cui l’artista, per conservare il loro ricordo, le ha rese inafferrabili fantasmi. Weems si è poi creata un alter-ego che un po’ quelle dive le ricorda, con il suo lungo abito nero, e che compare, in varie, sue serie (in genere lo usa per rimarcare l’inacessibilità o l’esclusività di determinati luoghi).

“The Evidence of Things Not Seen” di Carrie Mae Weems al Kunstmuseum Basel (il museo d’arte contemporanea di Basilea), a cura di Maja Wismer con Alice Wilke, si potrà visitare fino al 7 aprile 2024.

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Department of Lavorare - Mussolini's Rome, Roaming, Carrie Mae Weems, 2006 Digital C-print 186.531 x 156.21 x 6.66 cm © bei der Künstlerin / the artist Courtesy of the artist and Galerie Barbara Thumm

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Gina Folly

Carrie Mae Weems: The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel. Installation view. Photo Credit: Julian Salinas

Carrie Mae Weems, Medienkonferenz, The Evidence ot Things Not Seen, Kunstmuseum Basel, Gegenwart, 24.10.2023 Photo Credit: Julian Salinas

“The Third Hand” una riflessione sul potere di Maurizio Cattelan al Moderna Museet di Stoccolma

Maurizio Cattelan, HIM (2001) © Maurizio Cattelan 2024, Roy Lichtenstein, Finger Pointing. (1973) © Roy Lichtenstein. Photo: My Matson/Moderna Museet

Inaugurata il 24 febbraio scorso al Moderna Museet di Stoccolma, “The Third Hand”, grande retrospettiva che il museo nord europeo ha dedicato a Maurizio Cattelan, è una sfilata di capolavori (come si addice all’occasione, del resto). C’è il papa colpito dal meteorite de “La Nona Ora” (1999), l’Hitler in versione bimbo che dice le preghiere di “Him” (2001), una copia a grandezza naturale della mano con le dita mozzate (tutte tranne una) che si può osservare in Piazza degli Affari a Milano (L.O.V.E., 2010), fino a lavori più recenti, più riflessivi, in cui un senso di sorda contemplazione, se non un’eco di tragedia imminente, prendono il sopravvento sull’anima provocatoria e vitale della sua opera. Tutti sono stati inseriti direttamente nelle gallerie del museo, fondato nel 1958 e collocato sull’Isola di Skeppsholmen, per creare un dialogo tra loro e il ricco patrimonio storico conservato nelle sale progettate dall’architetto spagnolo Rafael Moneo.

Il titolo enigmatico, “The Third Hand” (“La Terza Mano”), Cattelan, l’ha spiegato in questo modo sulle pagine di Living CorriereForse perché la terza mano è quella che non sai di avere, quella che sa fare cose che le altre due non sono in grado di fare o che arriva in soccorso quando le altre sono occupate”. L’artista originario di Padova, infatti, è stato restio a rilasciare interviste per un lungo periodo ma ormai lo fa abbastanza spesso, conservando, però, un certo grado di elusività nelle risposte. Ed anche in questo caso ha aggiunto un po’ di mistero all’idea di mettere in scena una riflessione sul concetto di potere, che, invece, è stata sviluppata in maniera molto puntuale, sia attraverso le opere scelte che l’interessante installazione dei lavori. Il protagonista di “Him”, ad esempio, se ne sta in ginocchio di fronte a “Finger Point” (del ’73) di Roy Lichtenstein; la stanza è completamente rossa, l’illuminazione discreta e il pubblico può vedere le opere attraverso una finta cornice, che crea un gioco di specchi su chi voglia veramente indicare la mano con l’indice puntato dell’artista Pop statunitense (Hitler o noi?). La collocazione scelta per “Him” rafforza il paradosso e i doppi sensi su cui si basa la scultura e dà vigore al racconto.

In giustapposizione a Cattelan, anche diverse artiste nord e mitteleuropee, del passato e del presente, come la svizzera Eva Aeppli, le svedesi Cecilia Edefalk e Lena Svedberg, oltre alla famosa tedesca Rosemarie Trockel (appena due anni fa c’è stato modo di ammirarla alla Biennale di Venezia). I lavori, sono stati, infine, accostati pure alle pagine ingiallite della rivista underground della Svezia anni ’60, PUSS.

La curatrice della mostra, la direttrice del museo Gitte Ørskou, ha detto: “Questa è la seconda volta che invitiamo un artista ad approfondire la nostra vasta collezione. La pratica di Maurizio Cattelan affonda le sue radici nell'arte concettuale e pone domande sulla e sulla nostra realtà. Come curatore e fondatore di riviste d'arte, è stato in costante dialogo con l'arte. La sua visione critica e penetrante della nostra collezione restituisce all’arte il suo potere”.

Il Moderna Museet, che si estende per 5mila metri quadri, nella propria collezione ha, tra gli altri, anche dipinti e sculture di: Edvard Munch, Pablo Picasso, Salvador Dalí, Giorgio de Chirico, Alberto Giacometti, Henri Matisse, Marcel Duchamp, Louise Bourgeois, Jean Tinguely, Niki de Saint Phalle e Robert Rauschenberg. E le opere di Cattelan sono collocate lungo ben sei gallerie del vasto spazio espositivo a contatto con molte di queste.

Nato nel 1960 da una famiglia umile, Maurizio Cattelan, che ha raggiunto il successo già negli anni ’90, è da tempo considerato il più importante artista italiano vivente. Non fornisce mai un’interpretazione delle sue opere (che, per altro, sono aperte a diverse riflessioni), per lasciare allo spettatore la libertà di contribuire con la propria personale spiegazione. In un’altra recente intervista ha detto: “Ho sempre creduto che se qualcosa può essere ridotto a un concetto chiaro, è sicuramente artisticamente morto. L'arte non ha un intento diretto e univoco, altrimenti è un problema già risolto, e in questo non c'è niente di interessante”. Tuttavia, il suo lavoro accoglie lo spettatore con un’apparente chiarezza d’intenti, per poi intrappolarlo attraverso provocazione, paradosso e ironia. Uno dei punti di partenza ricorrenti delle sue installazioni è il cambio di dimensione: ciò che normalmente è piccolo diventa grande, quello che normalmente sarebbe troppo vasto diventa a misura d’uomo, Così la Cappella Sistina, meticolosamente riprodotta e miniaturizzata in “Untitled” (2018), diventa accessibile, smette di incutere timore, ci rassicura e ci fa sentire importanti (in questo caso, Cattelan, con la consueta ironia si interroga sia sul rapporto dell’uomo con la fede, sia con l’arte stessa). I piccioni tassidermizzati di “Ghosts”, invece, sono a grandezza naturale ma mettono disagio con il loro sguardo puntato su di noi dal loro punto d’osservazione esterno al teatro in cui ci muoviamo (qui Cattelan fa anche riferimento a tutti quelli che non hanno voce, umani e non umani). In mostra a Stoccolma c’è, infine, la poetica e struggente Breath”, presentata solo lo scorso anno al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, che rappresenta un uomo e un cane (scolpiti in marmo bianco) vicini e raggomitolati su se stessi.

Maurizio Cattelan, con la sua retrospettiva “The Third Hand”, rimarrà al Moderna Museet di Stoccolma fino al 12 gennaio 2025. Ma quest’anno sarà possibile godersi almeno una sua opera anche al Padigione della Santa Sede della Biennale di Venezia.

Maurizio Cattelan, Untitled, 2018 Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, La Nona Ora, 1999 Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, Breath, 2023 Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Installation view with full-sized copy of Maurizio Cattelan’s monumental sculpture L.O.V.E. Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, Untitled, 2018 (Detail) Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, Breath, 2023 Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024

Maurizio Cattelan, L.O.V.E. Photo: My Matson/Moderna Museet © Maurizio Cattelan 2024 (Full-sized copy of the artist's monumental sculpture L.O.V.E.)

Maurizio Cattelan, 2024 Photo: My Matson/Moderna Museet